2 ottobre 1992 – 2 ottobre 2012. Per chi c’era, per chi non c’era, per chi ha dimenticato, per chi ha rimosso…

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

Mi sono appena iscritto alla nuova scuola.
Neanche tre giorni e già sciopero.
Ma non potevo fare altrimenti: oggi è giornata di sciopero generale regionale indetto dai sindacati confederali e da quelli di base. Scenderanno in piazza anche tutte le realtà autorganizzate del mondo del lavoro, le liste dei disoccupati, tutti i centri sociali della città, anche se il coordinamento è diventato l’ombra di se stesso ormai. E tutto il movimento degli studenti medi e universitari. Sia quelli autorganizzati che quelli legati al Pds.
Non potevo certo mancare proprio io.
Però devo stare attento a come mi presento nella nuova scuola, dopo tre bocciature, quattro trasferimenti, un po’ di denunce e vari sette in condotta. Non posso più permettermi errori se voglio diplomarmi.
E ne ho tutta l’intenzione.
Ma in fondo non l’ho detto a nessuno che oggi sciopero. Mi sono dato malato e basta, perché anch’io devo sopravvivere e prendermi questo cazzo di diploma da ragioniere. L’ho promesso a me stesso e ai miei genitori. A tutta la famiglia in effetti, visto che sarei il primo diplomato da generazioni e generazioni.
Per cui dovrò rigare diritto a scuola, pensare solo a studiare e non fare politica direttamente. Agire nell’ombra, magari, come i vecchi studenti comunisti che agivano in clandestinità durante il fascismo. Fatte le dovute proporzioni, ci mancherebbe altro. Cazzo, in fondo ho già 19 anni e mezzo e faccio ancora il terzo. Son peggio di Garrone, Cristo santo!
Devo diplomarmi e darmi una calmata.
Me lo ripeto e lo scrivo sul mio diario mentre l’autobus mi porta in piazza.
Ma oggi gli operai finalmente si ribellano di nuovo, e pure quei rincoglioniti di Rifondazione.
Mezza Italia lancia bulloni contro il triplice sindacato venduto. E almeno uno lo voglio lanciare anch’io.

Arrivo in piazza praticamente da solo, con gli altri del mio gruppo ho appuntamento proprio sotto questo McDonald’s di merda, che spero un giorno devasteremo definitivamente.
Non come l’anno scorso, quando dopo neanche un giorno che era stato distrutto aveva già riaperto.
Sono qui con mezz’ora di anticipo.
Incontro quella stronza della Carra. Sì proprio lei, quasi non ci posso credere nel vederla qui: la professoressa dei Cobas che mi ha bocciato a settembre, impedendomi di fatto di riscrivermi alla mia sfavillante scuola di periferia. Costringendomi a emigrare in una compita e autoritaria scuola del centro. Un brutto segno incontrare la Carra. Ho pure indossato la mia camicia porta sfiga, altro brutto segno.
Lei mi saluta.
Io la guardo male e volto le spalle.
Avrei dovuto mandarla affanculo?
Forse picchiarla? Almeno uno schiaffo avrei potuto darglielo in fondo. ’Sta stronza m’ha davvero rovinato la vita.
Ma la mia maledettissima parte buona di cuore emerge sempre in queste situazioni e mi impedisce di essere cattivo, spietato. Come dovrei, vorrei essere.

La piazza si sta riempiendo. Sarà una giornata tosta, si sente nell’aria. Bandiere dei Cobas e degli altri sindacati di base la colorano. Ma più di tutte sono quelle dei sindacati confederali. Sono migliaia e migliaia, cazzo. Pochi compagni però. Autonomi intendo, e militanti vari dei centri sociali in generale. Ma dove stanno? Mi chiedono gli altri studenti. Già, me lo domando anch’io. Una parte dei miei compagni è qui con me, gli altri sono in piazza. La nostra struttura è divisa in due. Ma tutti gli altri dove cazzo stanno?
Boh…
Noi comunque ci prepariamo al meglio. Oggi sarò responsabile del servizio d’ordine degli studenti medi autorganizzati. Una cosa ridicola, forse, di cui però vado comunque orgoglioso.
Dell’ex mitico servizio d’ordine dell’autonomia romana non si vede neanche l’ombra. Noi schieriamo il nostro, quello degli studenti medi autonomi di Roma e provincia, mica cazzi eh…

Le barricate chiudono le strade ma aprono le vie.
Questo vecchio slogan campeggia sul muro. Cancellata, scritta, coperta e riscritta mille volte. Questa sera, quando sarà tutto finito, la guarderemo con occhi diversi.
Partiamo.
Attraversiamo piazza della Repubblica e giriamo lentamente l’angolo largo con via Cavour. Ci muoviamo lenti come un pachiderma, dobbiamo tenere unito il nostro spezzone che mai come oggi è immenso. Sconfinato e lentissimo però, poco agile quindi. Ci sono centinaia di ragazzini e ragazzine al loro primo corteo, ci ripetiamo fra di noi che dobbiamo tutelarli, proteggerli. Nessuno di loro dovrà farsi male. È un imperativo categorico per noi. Prima gli studenti da difendere, poi la nostra salvaguardia, cazzo.
Tre anni di lavoro politico quotidiano organizzato nelle scuole di mezza Roma danno i loro frutti, per questo siamo così numerosi e così in tanti ci seguono. Merito anche della bella giornata di sole d’autunno, la classica ottobrata romana.
La Cgil è davanti a noi. E dietro, e ai lati, ovunque. Ci controlla e ci contiene senza ancora muovere un dito. Per ora però siamo abbastanza tranquilli. Siamo pieni di bandiere, abbiamo il nostro striscione enorme del coordinamento di tutti gli studenti medi autorganizzati uniti di Roma, fuori dai partiti e dai sindacati, anche abbastanza contro direi… Finalmente siamo tanti, uniti e determinati. Migliaia. Altro che quei coglioni della sinistra giovanile e dell’Uds. E uniti agli operai e ai centri sociali stiamo riscaldando alla grande questo autunno!
Lo gridiamo dai megafoni che ogni scuola ha portato con sé. Con la conseguenza inaspettata e quasi ridicola di sentire cento megafoni parlarsi addosso.
Abbiamo scritto nei volantini e sugli striscioni la nostra parola d’ordine: occupare scuole, posti di lavoro, università e quartieri. Ecco cosa bisogna fare.
Con la crisi economica il movimento crescerà e non si farà ingabbiare di nuovo dai sindacati confederali nell’ennesima finta protesta utile solo ad arricchire le loro tasche. Lo gridiamo in faccia ai sindacalisti che ci circondano. E li facciamo rosicare, lo si vede bene dagli sguardi truci e incazzati che ci rivolgono contro. Iniziano già a passarsi i caschetti gialli e bianchi e se li infilano in testa. Si fanno cenni d’assenso fra loro e, incredibile a dirsi, pure con i loro colleghi che indossano i caschi blu. Davvero spudorati! Li sbeffeggiamo ma ci teniamo ancora distanti. Non si sa mai.
Non vogliamo lo scontro, almeno fino a quando non saremo arrivati in piazza San Giovanni. Lì, sotto il palco blindatissimo, regoleremo un sacco di conti. C’è tempo.
Ma loro non aspettano affatto. Non capisco come e perché ma parte la prima carica, cazzo!
Non sappiamo bene neanche da dove arrivi, in effetti… vediamo un fuggi fuggi generale.
Il servizio d’ordine della Cgil è sveltissimo, si vede che non aspettavano altro, tirano fuori dal furgone rosso posizionato strategicamente di fronte al nostro gruppo decine di stalin, senza neanche uno straccetto rosso attaccato sopra. Prendono a bastonate i compagni che sono davanti a loro in ordine sparso e quelli che gli si fanno sotto.
Si apre un varco, subito. Una piccola terra di nessuno.
Che resta tale. Non si ricompone più, quel vuoto.

Noi siamo qualche metro indietro, completamente disarmati, per fortuna l’onda del contraccolpo che di solito segue una carica non ci raggiunge. Restiamo compatti, serriamo le fila, aumentiamo gli slogan e cerchiamo di non far scappare nessuno, neanche i ragazzini, quelli che sono dieci cordoni dietro. Noi siamo il primo cordone del Movimento adesso, subito dietro la Cgil. I compagni sparsi dei Cobas e dei centri sociali che erano di fronte a noi non si vedono più.
Cristo de Dio!
Che fine hanno fatto?! Dove sono? Li cerchiamo senza poterci staccare dai cordoni ma non li troviamo.
Avanziamo ancora: il corteo, immenso, prosegue come al solito su via Cavour fino a girare un nuovo angolo, quello con la Basilica.
Facciamo un sacco di scritte sui muri contro il governo Amato e il sindacato, contro la polizia e il Pds. Tanta rabbia, la situazione è tesa ma si va avanti, guardati a vista dai mastini della Cgil.
Noi autorganizzati siamo migliaia, loro altrettanto.
Superiamo compatti e preoccupati la Basilica di Santa Maria Maggiore ed entriamo nella bellissima e alberata via Merulana.
E qui scatta la trappola.
Dietro di noi la Cgil fa il vuoto, si ferma e impedisce fisicamente il passaggio a molti studenti, manifestanti e ai suoi iscritti o simpatizzanti. Lascia entrare compatta la Digos, la celere e i carabinieri in mezzo al corteo. File di sbirri alle nostre spalle e davanti a noi. Ci circondano a migliaia. Ci hanno spezzato, isolato, diviso dal resto del corteo!
Che coglioni siamo stati, non siamo riusciti a capire quello che ci preparavano contro. Un’infamata del genere non ce l’aspettavamo oggi, neppure dalla Cgil. Non avremo potuto comunque evitarlo, penso nella mia testa. Siamo solo studenti medi. Gli universitari, i Cobas e i centri sociali sono tutti a piazza San Giovanni a dar battaglia al palco dei sindacati.
Dico agli altri di dividere il cordone a metà, far sfilare gli studenti sparsi rimasti dietro di noi e ricompattarci alle loro spalle, davanti alla polizia. Dobbiamo fare muro e difendere i nostri, a qualsiasi costo.
Cosa difficile per chiunque, figurarsi per tanti di noi con poca esperienza di servizio d’ordine. Urlo, urliamo. Gridiamo tutti così tanto che gli altri studenti, i nostri studenti, impauriti di per sé dalla situazione, alla fine seguono alla lettera le nostre indicazioni e avanzano veloci. La paura, quando non diventa panico, ti fa fare sempre la cosa migliore.
L’ho imparato bene quella volta che insieme a Giovannone e gli altri ero andato a vedere Inghilterra-Belgio a Bologna, durante i mondiali del ’90, per pestare qualche hooligan inglese, invece quasi le prendemmo noi. Ricordo bene la paura che provai quando un gruppo di stronzi hooligans ci rincorse per mezza Bologna dopo che gli avevamo strappato le sciarpe di dosso… tirarono fuori le lame e ci costrinsero a scappare come lepri, quando tutto sembrava perduto e la paura stava per trasformarsi in panico riuscimmo a scavalcare un enorme cancello di un condominio privato, manco fossimo stati dei fottuti ninja!
In che cazzo di storie mi vado a cacciare, sempre…
Dietro di loro veloce arriva la polizia. Scattiamo, in un attimo di follia, furia e determinazione. Gli impediamo di entrare nel nostro spezzone! Chiudiamo il doppio cordone di servizio d’ordine davanti alle loro facce un po’ sbigottite. Non se lo aspettavano proprio da un gruppo di studenti. Rimediamo qualche manganellata a cui rispondiamo con un po’ di calci e spinte. Ma senza rompere il cordone. Il cordone tiene e riusciamo a ricompattarci. Fottute guardie e fottuta Cgil, non ci avete ancora spezzato del tutto.
Lo penso, lo pensiamo e alla fine lo gridiamo ripetutamente in coro!
“Digos boia” diventa quasi un mantra… lo intoniamo per dieci minuti di seguito.
La Digos ora però è alle nostre spalle. Forte di centinaia di celerini e blindati che la proteggono. Senza mediazioni e senza nessuno a coprirci le spalle. Noi siamo l’ultimo cordone, quello che dovrà tenere la carica. Un onore e una sfiga allo stesso tempo.
I digossini sono invasati, ci prendono per il culo, ci ridono alle spalle, ci insultano, ci provocano. Noi non rispondiamo, facciamo i superiori… Continuiamo con i cori e cerchiamo di velocizzare il passo per arrivare in piazza prima possibile, per unirci ai nostri fratelli maggiori.
Siamo rallentati davanti da decine di file di carabinieri, che ci schiacciano e ci dividono dalla testa del corteo guidato ancora dalla Cgil, che adesso avanza stranamente veloce.
La visione è imponente. Siamo uno spezzone di migliaia di studenti, compresso da carabinieri e polizia.
Gli uomini della Cgil sono davanti e dietro gli sbirri, e ai lati in ordine sparso. Pronti a dar man forte alle guardie. A subentrare per finirci.
Un lavoro da macellai, insomma.
Parte la prima carica di alleggerimento, fatta solo ed esclusivamente dalla Digos. Ci assaggiano, per così dire.
Sono tutti in borghese, alcuni eleganti in cappotto giacca e cravatta e altri in jeans maglioncino e giacchettine parioline varie. I più coatti indossano ancora il vecchio Schott nero di pelle o giacche militari nere, blu, verdi. Sono davvero brutti. Non vedo donne fra loro. Sono un centinaio. Casco in testa e manganello in mano, attaccano il nostro doppio cordone. Abbiamo i caschi ma pochi bastoni. Ci spezzano in due, tre, quattro parti, ma riusciamo comunque a restare in piedi.
Faccio partire di nuovo, con tutta la rabbia che ho in corpo, un fortissimo “Digos boia!”. Reagiamo con la voce, calci e pugni. Ma è poca roba di fronte alla loro forza. Lo sappiamo bene adesso.
Per fortuna non affondano con la carica.
Ci lasciano il tempo di reagire e noi cerchiamo di usarlo come meglio possiamo.
Ci riorganizziamo, riformiamo il cordone e ci giriamo faccia a faccia verso di loro.
Marciamo all’indietro, dando le spalle al nostro spezzone. Per guardarli in viso e insultarli anche noi, vada come vada. Per la battaglia definitiva.
Invito tutti a resistere, grido e rido allo stesso tempo, la carica sta arrivando ma dobbiamo tenere. “Ci sono studenti giovani e inesperti” urlo, “dobbiamo proteggerli, cazzo!”
Partono i lacrimogeni ad altezza d’uomo e di donna, ad altezza studente, per la precisione.
Uno mi prende alla coscia, di striscio. Ma non solo il solo a essere colpito. La Digos si apre e fa passare i blindati e la celere che le coprono sempre le spalle.
Questi ci travolgono e ci mandano a terra come birilli, cazzo.
Il nostro cordone è frantumato, disperso. Non vedo più nessuno per un attimo lunghissimo.
Crollo sopra un gruppo di ragazzine che urlano e piangono.
Invocano la mamma.
È una mattanza. Ci massacrano senza pietà.

“Non mi sono fatto niente, cazzo! Lasciatemi andare!” grido a Marilù e al Teschio. Dopo aver vomitato acido riesco a rialzarmi e a vagare fra la nebbia dei lacrimogeni.
“Devo ritrovare gli altri, dobbiamo riformare il servizio d’ordine e andare in piazza, cercare una vendetta a questa infamia, a questa trappola della Cgil, cazzo!”. Questo grido al Teschio e ai pochi che vedo distrutti davanti a me.
Mi tocco la testa e c’ho un mucchio schifoso di sangue e capelli e terra fra le mani. Cazzo, mi hanno rotto la testa, penso.
Siamo divisi, colpiti, esausti, sconfitti.
Marilù e il Teschio dopo una lunga lite mi costringono a salire sull’ambulanza, che è un po’ la mia salvezza… la Digos sta arrestando varia gente e visto che mi avevano già inquadrato tornano alla carica. Arrivano due infermiere quasi a proteggermi ma sembrano titubanti quando vedono un paio di sbirri che mi puntano da lontano, le infermiere sembrano addirittura più giovani di me, e sicuramente di cariche ne hanno visto meno del sottoscritto. Per fortuna all’ultimo mi salva un cazzo di infermiere baffone, che potrebbe ricordare il Vecchio dei tempi d’oro. Mi fa cenno di accasciarmi e mi prende sottobraccio, mi fa salire sull’ambulanza, chiude svelto le porte e via, fa accendere le sirene.
L’infermiera dell’ospedale San Giovanni non riesce a medicarmi. Dice che sprizzo gas lacrimogeno dai pori ed è costretta ad aprire la finestra, a mettersi la mascherina e aspettare un po’, che io sbollisca insomma.
Cazzo ci mancava pure questa, eh! Che sfiga!
Claudia mi passa davanti e si ferma, perché riconosce il mio vocione che brontola contro l’incompetenza dei medici e la disorganizzazione. Ci salutiamo appena.
Ha le guardie letteralmente alle spalle e facciamo finta di non conoscerci per evitare che ci associno, facciano indagini, denunce, che insomma ci bevano lì al pronto soccorso.

La foto è pubblicata da pochi giornali, pochissimi.
Fulvio Vento è a cena coi suoi uomini in un noto ristorante della capitale, tanto il conto lo paga la Cgil, orgoglioso delle botte che hanno dato a tanti ragazzini e ragazzine. Mentre gli altri suoi sbirri scappavano lontano, in un’altra piazza, di fronte alle cariche degli autonomi.

Tratto da “Non dimenticare la rabbia” di Marco Capoccetti Boccia, Agenzia X, Milano 2009
qui scaricabile gratuitamente:
http://www.agenziax.it/imgProdotti/33D.pdf
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