Bandiera rossa sul Quirinale

 In attesa dell’elezione del presidente della Repubblica rilancio un mio vecchio racconto pubblicato in “Non dimenticare la rabbia”, Agenzia X, settembre 2009

Bandiera rossa sul Quirinale

 

 

Non riusciamo a tenere la piazza!”

 

Non riusciamo a tenere la piazza!”

 

Cristo!”

 

Mandate subito il primo reparto mobile se no questi sfondano!”

 

Cazzo! Sbrigatevi!”

 

Il capitano Colonna inizia a sudare, gli succede sempre in queste situazioni, e si chiede perché lui, erede di un’antica e nobile famiglia romana, debba scendere così in basso e ritrovarsi faccia a faccia con un branco di comunisti.

 

È decisamente stanco di passare i suoi tanto attesi fine settimana a combatterli per finta, e a volte per davvero. Ha quarant’anni passati ormai, sposato da quindici, due bambini che non vede mai, da trentacinque anni studia scherma tradizionale, lotta greco-romana e pugilato. Non queste stronzate di arti orientali che tanto amano praticare i suoi ufficiali e appuntati, solo perché va di moda adesso. Si considera un uomo d’altri tempi, e così lo vedono i suoi ragazzi. A cosa servono le arti marziali orientali, poi, contro questa teppaglia?

 

Tuttavia, neanche la scherma può essere utile, gli obietta a volte qualcuno dei suoi, e di sicuro non la lotta greco-romana.

 

Il capitano Colonna spiega paziente che è una questione mentale, di vera arte del combattimento, che romani ed europei hanno insegnato, vincendo sul campo di battaglia, a tutte le genti del mondo. Essenziale è la mentalità del cavaliere, in qualunque situazione e contesto ci si trovi. Con quella si può guidare anche una carica di appuntati e giovani sottufficiali come i suoi, contro questi delinquenti rossi.

 

Ma visto gli ordini del ministero, tutto sembra inutile.

 

Contenere, è la parola d’ordine del generale. Contenere chi? Cosa? Come, poi?

 

Che cazzo significa contenere” si chiede il capitano Colonna. Si è mai vista una battaglia facile da vincere in cui ci si limita ad arginare il nemico? Il capitano Colonna proprio non capisce. Sarebbe ben più semplice caricare a fondo, definitivamente, gli autonomi, fino a ricacciarli fuori dal centro storico della città e rinchiuderli nei loro ghetti. Con lacrimogeni, blindati, corpo a corpo se necessario, affinché ci pensino non una ma ben due volte prima di tornare a devastare gli antichi palazzi della sua Roma.

 

Sono dieci anni che gli impongono questa inutile tattica del contenimento, senza poter infierire. Un decennio di insuccessi militari, pensa il capitano Colonna.

 

Quando l’avversario è a terra bisogna immobilizzarlo e renderlo innocuo, gli si accorda una sconfitta onorevole solamente se la merita.

 

Ma questi autonomi sono solo teppisti pieni di rabbia e odio che vogliono distruggere tutto, niente più. Non meritano nessun riguardo, vanno schiacciati come scarafaggi con tutta la forza a disposizione. Di questo il capitano Colonna è davvero convinto.

 

 

E pensare che avrebbe potuto scegliere una strada decisamente più semplice della carriera nell’Arma, una cosa che, a dire la verità, all’inizio neanche lo entusiasmava. Si sente un uomo di altri tempi, il capitano, fedele al papato prima che alla repubblica, così come lo è da sempre e per sempre lo sarà la sua famiglia. È un monarchico nell’anima, certamente, ma per lui il sovrano assoluto dovrebbe essere, ancora oggi, il papa. Non quegli usurpatori dei Savoia che hanno gettato fango sul palazzo che lui ora si trova, per ironia della sorte, a dover difendere a tutti i costi. Per non parlare del presidente di quella repubblica dei partiti, deboli e corrotti, che lo ha gettato d’improvviso sulla linea del fronte, quasi fosse un soldato qualsiasi. Una linea del fronte poco cavalleresca e molto, troppo, proletaria.

 

 

Ma la famiglia dei Colonna non è più quella consegnata alla storia dagli ultimi mille anni. L’unico modo per emergere con dignità come nuovo cavaliere era l’Arma dei carabinieri. Niente contabilità, nessuna politica da strapazzo. Nell’Arma avrebbe senz’altro trovato il modo di servire al meglio il suo sacro ideale.

 

 

I pensieri del capitano Colonna vengono interrotti dalle urla dei suoi ragazzi.

 

Capitano, il reparto mobile è stato bloccato all’angolo dei Fori. Dobbiamo aiutarli noi, a quanto pare”, grida all’improvviso il brigadiere Cerulli.

 

Aiutarli noi? Ma che cazzo dici, Cerulli! Lo vedi quante molotov stanno tirando questi stronzi? Fra poco sfondano e noi dovremo indietreggiare su, dritti per la salita verso il Quirinale. Capito? Lo sai che significa?”

 

Sì, certo, capitano” risponde Cerulli con l’aria poco convinta.

 

In realtà Cerulli, brigadiere della provincia di Latina, non sa affatto cosa significhi ritirarsi in salita, dietro un fitto lancio di molotov, sassi, bottiglie e quant’altro gli autonomi stiano tirando.

 

 

Eppure Cerulli si sente orgoglioso di essere finalmente al comando di una piazza nel centro di Roma. Be’, se non proprio al comando, aiuta chi comanda, questo sì. Ed è senz’altro un gran bel salto dalla sua piccola caserma di paese dove vive e ammuffisce da oltre dieci anni.

 

La sua carriera era iniziata da carabiniere semplice, uscito fresco fresco dall’anno di ferma militare, per arrivare all’assegnazione della caserma del suo paese. Una fortuna immensa, gli dicevano sempre i suoi genitori, vecchi contadini dell’Agro Pontino, e soprattutto glielo ripeteva la sua fidanzata: così si sarebbero finalmente sposati e avrebbero vissuto vicino alle loro rispettive famiglie. Lui avrebbe staccato a mezzogiorno per la pausa pranzo e avrebbe mangiato a casa, come si deve, senza schifezze da mensa.

 

Ma lui no, lui cercava l’avventura! – così gli gridava la sua fidanzata – e aveva cercato in tutti i modi di farsi assegnare presso la caserma storica di via in Selci della capitale.

 

E da un anno c’era riuscito. Agli ordini del famoso capitano Colonna.

 

 

Gli autonomi Cerulli li conosceva bene, e li odiava altrettanto.

 

A dire la verità, tutta la verità, Cerulli li aveva incrociati poche volte nella sua carriera. Ma la prima volta che ci si era scontrato non l’avrebbe mai dimenticata.

 

Erano almeno un centinaio, sbucati all’improvviso da non si sa dove. Erano venuti a contestare addirittura la presentazione di un libro del ministro. Una cosa per pochi, parlamentari, giornalisti e alcuni notabili. Meno di cento persone comodamente sedute presso un’antica sala del senato, champagne e ostriche, come nella migliore tradizione. Il compito di sorvegliare su questo piccolo gala era stato assegnato proprio al capitano Colonna, particolarmente amato nelle stanze del palazzo, un po’ per il suo altisonante cognome, un po’ per i suoi modi eleganti ma sempre risoluti.

 

E Cerulli quel giorno era lì, emozionato e sempre al telefono con la fidanzata, intento a raccontarle passo passo la festa quasi principesca… quando a un certo punto erano arrivati, come nei peggiori film di serie B all’italiana, quelli per la provincia ignorante che Cerulli tanto amava.

 

Un centinaio di autonomi, entrati grazie a finti pass governativi, tutti con le felpe scure, nere o blu qualcuna rossa, con il maledetto cappuccio che copriva la testa e parte del viso, e zaini carichi, pieni, stracolmi, non si sapeva bene di cosa…

 

 

Gli stessi autonomi che ora si trova di fronte.

 

Determinati, arrabbiati, sempre con quelle loro felpe che oramai aveva imparato a distinguere da quelle normali, indossate dagli altri ragazzi di sinistra non violenti.

 

Cazzo… ma quanti sono… ma che fanno?”

 

Lo spettacolo è davvero impressionante.

 

Un quadrato, composto da almeno un migliaio di autonomi, prende forma sotto gli occhi di Cerulli e Colonna.

 

Le prime file di questo enorme e spaventoso blocco hanno degli scudi di plexiglas alti due metri, e poi, sopra di loro, a coprire almeno tre cordoni di autonomi, altri scudi di plexiglas a formare un grande tetto trasparente, resistente e difficilmente penetrabile.

 

La stessa tecnica anche per le file laterali e quelle in chiusura.

 

Hanno tutti dei caschi integrali, indossano divise da football americano, parastinchi e paragomiti, guanti enormi che tengono ben fermi gli scudi, e gli stalin, i maledetti stalin…

 

Che poi non sono altro che manici di piccone a cui appendono strisce di stoffa rossa, per richiamare la bandiera.

 

 

E lanciano di tutto: sassi, bottiglie, enormi pezzi di fioriere, molotov, soprattutto molotov, prima alle gambe, poi sempre più in alto tanto che due dei suoi uomini vengono colpiti sul casco.

 

Gli autonomi, incredibile a dirsi, sono organizzati come una versione allucinata e postmoderna delle antiche legioni romane: la prima fila dei portatori di scudi, quando è troppo stanca di ricevere lacrimogeni sul plexiglas, si ritira e la fila immediatamente dietro prende il suo posto, continuando ad avanzare imperterrita, in blocco.

 

A un certo punto gli autonomi avanzano e formano un piccolo cerchio.

 

Cosa fanno?” chiede Cerulli ai suoi ragazzi.

 

In risposta, fuoco. Cazzo! Stanno bruciando il Tricolore! Stanno bruciando un’enorme bandiera italiana proprio qui di fronte al Quirinale!

 

Ma questi stronzi non hanno rispetto per nulla!” Cerulli non sa se essere incredulo o furioso.

 

Cosa gridano? Cosa gridano?”

 

Non capiamo signore, c’è troppo casino.”

 

 

Bruceremo… bruceremo… bruceremo il tricolor! Bruceremo, bruceremo, bruceremo brucerem il Quirinal…” salì come un boato immenso il grido di guerra degli autonomi.

 

Ma questi sono matti, pensa allibito il brigadiere Cerulli.

 

Questi vogliono attaccare il Quirinale.

 

Questi vogliono proprio attaccare il Quirinale!

 

Cerulli inizia a gridare a se stesso, ai suoi uomini, al cielo.

 

Un’azione inaudita, che nessuno si sarebbe mai aspettato.

 

Cerulli non era neanche mai entrato al Quirinale, a parte una volta con la sua fidanzata, ma ora sapeva che doveva difenderlo da questa feccia rossa, a tutti i costi. Tutti quegli ori e quei lampadari, tutta quella storia. Appena giunto in servizio a Roma lo stesso capitano Colonna gli aveva suggerito di farci un giro, “da turista” si era raccomandato. “Salire sul colle è un’esperienza unica” aveva declamato il capitano, gli occhi sognanti.

 

Cerulli l’aveva fatto, una domenica mattina di bellissimo sole, mano nella mano con la sua fidanzata, ed erano entrati nelle stanze segrete, o quasi, del Quirinale. Lampadari ottocenteschi, quadri della migliore scuola italiana, argenteria da collezione.

 

Tutto questo ora stava per essere distrutto dai vandali.

 

Non lo avrebbe permesso!

 

 

Ordinò ai suoi uomini di schierarsi in fila compatta.

 

Uomini… o meglio ragazzetti sbarbati, che ancora dovevano fare la prima carica della loro vita. Ma ti pare che il comando doveva mandare dei ventenni a difendere il Quirinale?

 

Li fece allineare a forza di urla. Una fila perfetta, nera coi bordi rossi. Ma era un’unica linea, non c’erano uomini neanche per improvvisare una seconda fila o almeno rinforzi ai lati, dove di solito questi stronzi di autonomi riuscivano spesso a intrufolarsi e sfondare.

 

Fece chiudere immediatamente i lati con le poche gazzelle e autoblindo rimaste sulla grande piazza di fronte al Quirinale. Le altre erano sparse per il centro a presidiare i ministeri e palazzo Chigi, anch’essi sotto attacco. Molte gazzelle, pantere e blindati erano già attaccati dal fuoco delle molotov, o comunque impossibilitati a muoversi in soccorso del palazzo presidenziale.

 

Uscì fuori dal grande quadrato che a fatica era riuscito a disporre; voleva ammirare il suo lavoro, trasmettere ai suoi uomini forza e sicurezza. Ma rimase subito deluso, e poi spaventato. La piccola colonna era davvero solo un punto nero nella grande piazza, ed era circondata sempre più dal fumo e dal fuoco, e dai pezzi dei grandi vasi spaccati e poi lanciati dagli autonomi.

 

Li stavano assediando.

 

Ma dov’erano finiti gli altri colleghi? E la celere dov’era? Quegli stronzi sono bravi solo quando sono tanti contro pochi. Mai che si sacrifichino in situazioni come questa…

 

Siamo rimasti soli!

 

Noi e gli autonomi.

 

Che dice il capitano Colonna?

 

Dov’è, il capitano Colonna?

 

 

Il capitano Colonna si guarda intorno, la piazza sembra deserta, per un attimo, un attimo soltanto. Poi d’improvviso eccoli schierati davanti a lui, in aperta sfida.

 

Disordinati, nel vestire e nello stare incordonati, ma con lo stesso feroce atteggiamento di sfida che avevano trent’anni fa e che diventò il loro segno distintivo. Non erano organizzati come i marxisti-leninisti, né come quelli di Lotta Continua e Potere Operaio, ma non si riusciva a cacciarli dalle piazze neanche con dieci cariche. Peggio dei selvaggi!

 

 

Io quasi quasi li faccio passare…

 

Ma perché debbo essere proprio io, ancora io, a dover difendere rischiando la vita questo cazzo di Quirinale?!

 

Ma che se ne vadano tutti all’inferno, pensa fra sé e sé il capitano.

 

Il capitano Colonna sa di essere stanco di queste cazzate, sono vent’anni che lo è, da quando era un semplice appuntato, nonostante la triplice raccomandazione, e non è riuscito a fare carriera. Ha sempre pensato che divenire un ufficiale dei carabinieri fosse meglio che niente in questa società sprezzante delle regole e dei valori. Ma evidentemente l’ha pensato solo lui, e pochi altri. Come quelli che lo hanno preceduto, il suo vecchio zio che per anni ha tentato di ristabilire l’ordine di un tempo. Ma colpi di stato falliti e colpi di stato fantasma non hanno cambiato nulla. E allora, se dev’essere inferno, inferno sia! Così gli altri si renderanno finalmente conto che parole come “tradizione” e “valori” avevano davvero un senso profondo per lui, quando le sfoderava nelle serate al circolo.

 

 

Intorno al capitano Colonna il caos adesso è informe. Mille e mille carabinieri fuggono atterriti: mai vista una cosa del genere, neanche di fronte ai nazisti!

 

Ci pensasse Cerulli a difendere questo colle in salita…

 

Cazzo… ma quanti sono?! Eccolo lì il secondo quadrato, come preannunciato dalle informative inutili dei Ros. Bravi a informare ma non a resistere, stavolta.

 

E perché mai dovrei farlo io? Basta così, stavolta me ne vado davvero.

 

Ci penserà semmai un brigadiere di provincia a tenere alto l’onore dell’Arma. Tanto meglio per lui, e forse per l’Arma stessa.

 

 

Forza ragazzi! Forza! Indietreggiate… su veloci, su verso il grande portone.

 

Una volta chiusi lì dentro non ci potrà succedere niente. Avanti! Anzi, indietro! Cazzo sono il vostro brigadiere, eseguite gli ordini! Subito!”

 

Brigadiere! Brigadiere!” urla il giovane appuntato Romelli.

 

Che vuoi, Romelli? Che novità ci sono?”

 

I Ros hanno lasciato l’edificio! I Ros hanno lasciato l’edificio!”

 

Ma quale edificio? Di che cazzo stai parlando, Romelli?”

 

Del palazzo… del Quirinale, signore. Lo hanno, ehm… abbandonato. Pare. Hanno scortato fuori il presidente e sua moglie. Me lo hanno appena comunicato dal comando…”

 

Ma come, hanno abbandonato l’edificio? Ma che cazzo dici? Mica è un edificio qualsiasi, che si può lasciare…”

 

E invece sono scappati, signore.”

 

E che ordini ci sono dal comando?”

 

Nessun ordine, signore, i Ros sono fuggiti. E basta.”

 

Ma come…” Cerulli non ha più voce, non ha più forze.

 

Ha capito bene, signore. Hanno abbandonato il palazzo. E, a quanto pare, pure noi.”

 

Dopo un silenzio che sembra interminabile, interrotto dal rumore di bottiglie e sassi che cadono a terra tutte insieme, il brigadiere guarda in faccia l’appuntato Romelli e tutta la sua prima fila di giovani carabinieri.

 

Che facciamo, brigadiere?” insiste Romelli.

 

Nulla.”

 

Come nulla?”

 

Continuiamo semplicemente a fare il nostro dovere di carabinieri.”

 

Cerulli si fa forza, grida: “Avanti ragazzi! Muovetevi! Disponetevi a testuggine. Subito!”. I suoi uomini lo fissano increduli, spaesati.

 

A testuggine, cazzo! Lo avrete fatto mille volte durante le esercitazioni. Lo sapevate che prima o poi si faceva sul serio! Questo è il momento, più che mai! Forza ragazzi!”

 

Mettetevi a testuggine, e che non sia mai che facciamo passare questo branco di autonomi!”

 

Per quanto violenti e organizzati non saranno mai disciplinati come noi… siamo l’Arma dei carabinieri!”

 

 

Gli autonomi avanzano da tutti i lati, salgono per la salita ma arrivano pure dalla discesa, da via del Quirinale, alle spalle di Cerulli e dei suoi uomini.

 

Un secondo quadrato.

 

Sono migliaia. Un gruppo ancora più impressionante e imponente del primo, quello che già aveva messo in fuga il primo reparto scelto dei carabinieri.

 

Alcuni gruppetti non incordonati avanzano di lato, su e giù, tirando bottiglie molotov.

 

Le prime file sono composte da una sorta di lanciatori medievali che tirano sassi, cocci, batterie e bottiglioni pieni di vernice. Ce ne sono almeno un centinaio con fionde di precisione. Tirano pallettoni di piombo di quelli da pesca e pile elettriche formato gigante.

 

Avanzano velocemente, lanciano a ripetizione e poi indietreggiano ancora più in fretta per rientrare nel quadrato, a proteggersi dietro gli scudi.

 

I carabinieri lanciano ormai solo lacrimogeni, indietreggiando, ma gli autonomi rispondono con gli estintori che vanificano l’uso dei gas urticanti.

 

Il secondo quadrato avanza compatto su via del Quirinale.

 

Da via Nazionale altre centinaia di autonomi procedono in ordine sparso, mentre dalla salita a gomito di via IV Novembre avanza, conquistando definitivamente la grande piazza, il primo quadrato organizzato.

 

Capitano Colonna! Capitano Colonna!” urla Cerulli alla radio.

 

Capitano, dove sta? Capitano, dove cazzo sta!” Cerulli ora è atterrito, impaurito, sfiduciato e imbestialito. Il tradimento gli stringe il cuore e una rabbia improvvisa, dolorosa e devastante, lo incalza, lo incita a correre su e giù, lo tiene in piedi.

 

Signore…” Romelli gli si avvicina esitante.

 

Si può sapere che cazzo vuoi adesso?!”

 

Non si arrabbi signore… non so come dirglielo…”

 

Dillo e basta, appuntato! Ti pare che abbiamo tempo da perdere?”

 

Il capitano è andato via” dice tutto d’un fiato Romelli.

 

Andato via? Andato dove? Che diavolo dici?”

 

È andato via, signore. Ha detto una cosa ed è andato via.”

 

Una cosa? Ma stai scherzando?”

 

No, signore.”

 

Era una domanda retorica, fesso. Se pensavo davvero che stavi scherzando ti avrei già cacciato io a calci in culo… altro che gli autonomi!”

 

Cerulli è affranto, ha quasi paura di chiedere. “Che cosa ti ha detto il nostro capitano Colonna allora?”

 

Ha detto che l’Arma ora è in mano ai suoi veri eroi, i brigadieri… e i marescialli… e gli appuntati.”

 

Ha detto così?”

 

Sì. E ha anche aggiunto che il tempo degli ufficiali di Roma è finito. Il palazzo spetta a noi difenderlo.”

 

Ah…”

 

 

Cosa facciamo, signore?” chiede indeciso Romelli.

 

Resistiamo, appuntato. Resistiamo. Il Quirinale è nostro e noi lo difenderemo. Forza ragazzi! Forza! Allineatevi! Su, davanti al portone!” grida ai suoi uomini.

 

Ma proprio in quel momento l’ennesima pioggia di molotov investe l’atrio antistante il portone. Dal primo e dal secondo quadrato i lanciatori attaccano contemporaneamente la retroguardia dei carabinieri, tagliandole la strada con il fuoco e impedendo la ritirata.

 

Lo scenario per Cerulli è ormai chiuso.

 

E lui lo sa bene.

 

 

Forza, ragazzi! Avanti! Dobbiamo aprirci un varco e lasciare questa trappola di piazza! Subito! Prima che ci accerchino definitivamente! Forza! Forse di lì potremo caricarli alle spalle e disperderli…” conclude con poca convinzione, stremato, senza quasi osare guardare i suoi ragazzi.

 

Signore!” di nuovo Romelli, agitatissimo.

 

Che c’è ancora…?”

 

Non di là, signore… non potremo mai passare fra il primo quadrato e la massa di autonomi appena arrivati da via Nazionale!”

 

Cosa proponi, Romelli? Che cosa possiamo fare?” grida per l’ultima volta Cerulli, brigadiere della provincia di Latina.

 

Le scale sotto la terrazza, signore. Quelle di fronte alle scuderie. Le scale segrete, signore. Possiamo fuggire di lì.”

 

Fuggire?” Cerulli è incredulo.

 

Romelli guarda il suo brigadiere, il suo capo, il più alto in grado rimasto a dirigere la piazza.

 

Sì, signore, siamo rimasti in pochi, possiamo solo difendere la nostra vita… se tutti se ne sono andati, che cazzo restiamo a fare, signore? Non siamo neanche di Roma…”

 

Cerulli ormai è inebetito.

 

Una molotov esplode a due passi da lui e la fiammata quasi lo investe di fianco.

 

Andiamo via, signore, subito! Prima che sia troppo tardi. Forza!” grida Romelli quasi afferrandolo per la divisa, sporca di fumo.

 

La piazza d’improvviso si svuota degli ultimi carabinieri.

 

I primi scalatori arrivano subito dopo le molotov.

 

Protetti fino all’ultimo dai lanciatori, avanzano ai lati, si nascondono fra i grandi pini di Roma che circondano il palazzo e rendono meno solo il Colle. Come moderni ragazzi di Sherwood salgono attraverso le infinite tettoie. Si sono portati corde da trekking e da scalata, guidati da esperti scalatori e arrampicatori urbani. Sono dieci anni che organizzano le azioni creative sui tetti della città, liquidate dai vecchi militanti come azioni da fricchettoni perditempo e ora rilevatesi essenziali per la guerriglia urbana.

 

Neanche tentano di aprire il portone, danneggiato ma non abbattuto dal fuoco. Nemmeno provano a sfondare le finestre, le grate di ferro e acciaio le proteggono troppo bene.

 

Salgono diretti verso il tetto, anzi i mille tetti del Quirinale. Uno dopo l’altro si danno la mano, si arrampicano in verticale, legati stretti con le corde.

 

Fino a che il più piccolo e giovane degli scalatori, un ragazzetto della nuova periferia, riesce a salire sul tetto del pennone.

 

A un certo punto era lì. Rossa, ben spiegata al vento del nord.

 

 

 

 

 

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