27 Aprile 1966: l’assassinio da parte dei fascisti del compagno Paolo Rossi a “La Sapienza”

Il 27 aprile del 1966,  viene assassinato Paolo Rossi, studente socialista e antifascista sulla scalinata della facoltà di Lettere de La Sapienza. Viene ucciso durante un attacco fascista all’università di Roma guidato da Delle Chiaie, allora leader del gruppo fascista La Caravella. Al suo fianco ci sono il famigerato squadrista Serafino di Luia e Mario Merlino. Si presume che fu Merlino a far cadere Paolo Rossi dalle scale della facoltà, dopo averlo ripetutamente colpito. Come testimoniano le persone presenti e molte foto, sono numerosi gli studenti che vengono picchiati dai fascisti con il silenzio complice della Polizia che non intervenne. Scrivo che si presume poiché non ci fu nessun processo, nessuna verità giudiziaria, come avvenne spesso in quegli anni la Magistratura con l’aiuto insabbiatorio della Polizia non fece alcuna seria indagine e archiviò il tutto derubricandolo a una rissa fra studenti.

Ci fu allora una reazione ferma e decisa dell’antifascismo universitario, fu in linea di massima una protesta determinata ma pacifica e democratica, lontana dall’antifascismo militante che caratterizzò gli anni ’70. Ma fu finalmente una prima risposta alle tante incredibili aggressioni squadristiche che caratterizzarono Roma fin dal 1945 al 1966, quasi sempre senza reazione. Furono occupate alcune facoltà e allontanati i fascisti che continuarono a provocare, aggredire, attaccare.

[…] La mattina del 27 aprile, sulla scalinata della facoltà di lettere, Paolo Rossi, uno studente socialista di architettura di appena 19 anni, iscritto alla gioventù socialista, viene circondato da un folto gruppo di neofascisti. La sua colpa? Nel momento dell’aggressione stava distribuendo volantini dell’Unione Goliardica Italiana […], posizioni in fondo moderate ma evidentemente fastidiose. A Paolo Rossi, un ragazzo alto e forte nonché provetto rocciatore, costano i calci e i pugni dei suoi aggressori: colpi micidiali scagliati da una massa inferocita che, malgrado i continui richiami al coraggio e al senso dell’onore, non si fa scrupolo di infierire contro una persona disarmata e sola. Su un volantino d’Avanguardia nazionale , d’altro canto, i sedicenti rivoluzionari di Delle Chiaie avevano scritto: “Prima di partire i nostri vengono preparati moralmente, perché imparino a spaccare le ossa anche a uno che si inginocchia e piange”. Paolo Rossi, percosso selvaggiamente, né si inginocchia né piange. Poco distante dal luogo dell’aggressione, un nutrito corpo di agenti di PS comandati dal commissario D’Alessandro osserva la macabra scena ma non interviene. Ed è così che Paolo Rossi , travolto dal gruppo di picchiatori, sbarra gli occhi, barcolla e, alla ricerca di una via di fuga, trova i cinque metri di vuoto che, come una voragine, si aprono su un lato della scalinata. Il tonfo di un corpo umano che precipita dall’alto produce un rumore sordo e terrificante: Paolo Rossi cade e non si rialza mai più1.

La ribellione degli studenti e anche quella dei professori fu immediata ma in effetti non portò alla nascita di un vero e proprio Movimento studentesco antifascista, anzi, i neofascisti, dopo una breve e determinata reazione degli studenti e dei professori di sinistra, continuarono a imperversare nelle facoltà per almeno altri due anni, fino alla nascita del Movimento del ’68.

In quell’occasione si era mobilitata l’intera sinistra democratica, in nome di un antifascismo rivendicato come fondamento della legalità repubblicana. Lo stesso giorno dell’incidente era stata occupata la facoltà di Lettere, sgomberata nella notte dalla polizia; il mattino successivo un’imponente assemblea di studenti e docenti, seguita nel pomeriggio da un comizio in cui avevano parlato Ferruccio Parri, Nuccio Fava, presidente dell’UNURI (Unione universitaria rappresentativa italiana) e Marcello Inghilesi, presidente dell’Unione goliardica italiana, aveva deciso l’occupazione di otto facoltà e istituti. L’assemblea notturna del 28 aprile votò a grandissima maggioranza un documento in cui si deliberava un’occupazione a oltranza fino al conseguimento di due obiettivi: il primo, le dimissioni del rettore Ugo Papi, accusato di non aver impedito il ripetersi di provocazioni e violenze da parte dei gruppi dell’estrema destra; il secondo, “lo scioglimento delle organizzazioni parafasciste di studenti universitari, applicando la lettera e lo spirito della legge e della Costituzione con il conseguente ripristino della vita democratica nell’università”. Il 29, davanti a una grande folla radunata nel piazzale della Minerva, si svolgevano i funerali: l’orazione funebre fu pronunciata dall’italianista Walter Binni, ordinario nella facoltà. Il rettore si dimetteva il 2 maggio, e il 3 l’assemblea plenaria degli studenti, docenti e rappresentanti del personale non insegnante votava la fine dell’occupazione. I protagonisti del fronte che si era mobilitato per la morte di Paolo Rossi erano molto diversi da quelli del movimento del ’68. Certo, ci furono allora segnali chiari, soprattutto fra gli studenti, dell’emergere di un nuovo radicalismo insofferente della logica politica che accomunava i partiti nazionali e le associazioni politiche studentesche dell’ORUR (Organismo rappresentativo universitario romano). Ma il carattere prevalente dell’occupazione per Paolo Rossi era dato dalla cultura e dalla pratica politica che accomunava in un impegno attivo un’élite di giovani studente universitari dediti agli studi e alla politica universitaria insieme a un’ampia rappresentanza di docenti democratici. Diversi furono allora anche i modi e i contenuti della mobilitazione: di fronte all’intervento con la forza della polizia la notte della prima occupazione, studenti e professori avevano risposto con una composta resistenza passiva, facendosi portare via a braccia. Nelle facoltà e negli istituti occupati, nessuna scritta sui muri, e tanto meno nessun danno agli ambienti e alle cose. Alla base, infine, il richiamo alla legalità e ai principi della democrazia rappresentativa, espressa peraltro in quel contesto anche dal ruolo dei “partitini” dell’ORUR 2.

La storiografia militante si discosta da questa interpretazione e, relativamente a Paolo Rossi, lo ricorda come il primo studente di sinistra ucciso dai fascisti, tanto che la facoltà di Lettere in cui morì divenne nel corso degli anni uno dei principali motori dei movimenti di lotta romani e nazionali. Soprattutto la letteratura politica dell’epoca prefigura la reazione che ne conseguì come un primo moto studentesco antifascista di quello che sarà il Movimento del 1968. Infatti nel libro La strage di Stato, testo di riferimento negli anni a venire per migliaia di militanti della Nuova Sinistra,quello che accade dopo la morte di Rossi è interpretato come un nuovo modo di praticare l’azione antifascista e antistatuale degli studenti.

La morte di Paolo Rossi risveglia le coscienze, mobilita i giovani della nuova sinistra. Alcune facoltà vengono occupate. La notte tra il 28 e il 29 gli squadristi di Delle Chiaie aggrediscono nuovamente alcuni studenti isolati, bloccano l’auto su cui viaggia la figlia del deputato comunista Pietro Ingrao assieme a due amici assistenti universitari, a uno dei quali un colpo di coltello asporta la falange di un dito. […] Il 2 maggio tutta l’università romana è occupata. Tremila studenti riuniti in assemblea e 51 docenti titolari di cattedra denunciano in una lettera inviata al presidente della Repubblica “la situazione di violenza e illegalità che regna nella città universitaria dove un’infima minoranza di teppisti che hanno fatto propri i simboli del nazismo, del fascismo, delle SS e dei campi di sterminio possono impunemente aggredire studenti e professori che non condividono metodi e idee appartenenti al più vergognoso passato e condannati dalle leggi di tutti i paesi civili”. E concludono: “Di fronte a questo stato di cose, anche noi ci sentiamo responsabili della morte di Paolo Rossi perché abbiamo tollerato tutto ciò sino ad oggi”. Il giorno precedente un corteo di centinaia di operai si era recato alla Città Universitaria per portare la propria solidarietà agli studenti occupanti. Il ministro della pubblica Istruzione, a scanso di guai ulteriori, costringe alle dimissioni chi, più degli studenti e dei professori democratici, è stato responsabile per anni della situazione che ha portato alla morte di Paolo Rossi: il rettore Ugo Papi. […] Eppure i fascisti attaccano ancora. Il 2 maggio 300 squadristi guidati da Caradonna e Delfino danno l’assalto alla facoltà di Legge: ma ormai gli studenti sono in grado di reagire e di battersi e anche la polizia interviene. In realtà, la presenza dei fascisti si era rivelata utilissima per la creazione nell’Università di quel clima di terrorismo e di rissa latente su cui il vecchio corpo accademico, incolto e clientelare, fonda le sue tradizionali fortune. Impossibilitati a sviluppare la dialettica delle idee, gli studenti di sinistra stentavano a mettere a fuoco gli obiettivi di lotta avanzati e restavano prigionieri della logica anacronistica, anche se legittimata da esigenze di conservazione fisica, della battaglia antifascista. Dall’esperienza di quegli anni il corpo accademico e, più in generale, le forze interne all’apparato statale. trarranno utili indicazioni per il futuro: in quel momento, l’applicazione di alcuni elementari principi costituzionali nell’ambito universitario nasce più dalla paura della reazione studentesca che da una, sia pur tardiva, resipiscenza democratica delle autorità3.

Nonostante il clamore suscitato dalla protesta studentesca, che fu ampiamente riportata sui giornali dell’epoca4, il Giudice Istruttore dichiarò non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti e che il motivo della morte era evidentemente un malore e che il caso andava archiviato. Questa scelta contribuì notevolmente a sviluppare l’idea che i neofascisti godevano di una impunità pressoché totale per i loro attacchi violenti contro gli studenti e i militanti di sinistra, poiché la magistratura non si limitava a chiudere un occhio, ma entrambi, anche nei casi più eclatanti di violenza neofascista come quello che aveva condotto alla morte di Paolo Rossi.

Tuttavia, con una modalità simile a quella che si manifesterà anche per altri omicidi politici degli anni a venire, sono i gruppi di controinformazione del Movimento a mettere in luce la responsabilità dei neofascisti per quanto riguarda l’omicidio di Paolo Rossi.

Già nel libro La strage di Stato vengono indicati, infatti, come possibili responsabili dell’azione omicida, un gruppo di fascisti che negli anni successivi diventeranno famosi in quanto mandanti, o autori materiali, delle stragi che insanguineranno l’Italia.

Anche le foto dello scontro tra neofascisti e studenti in cui fu ucciso Paolo Rossi, parlano chiaro, mostrando fascisti che si accaniscono su studenti isolati, mentre i poliziotti stanno a guardare. Riconoscibilissimi sono Serafino Di Luia, Flavio Campo, Saverio Ghiacci, Adriano Mulas-Palomba, Alberto Questa, Loris Facchinetti e Mario Merlino5.

Lo stesso Merlino conferma la sua presenza in quella situazione di scontro, pur senza ammettere alcuna responsabilità di sorta per la morte di Paolo Rossi6.

Alcuni di questi neofascisti continueranno incredibilmente a essere protagonisti di diverse manifestazioni universitarie e, in almeno un paio di occasioni, lo saranno al fianco degli studenti di sinistra, in quello che è passato alla storia come il Movimento del 1968. Oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che la loro presenza fu assolutamente provocatoria, su indicazione di provocatori di professione come Freda, Rauti, Delle Chiaie, che non volevano affatto sovvertire dal basso e in maniera unitaria insieme agli studenti di sinistra la società italiana, ma che in combutta con servizi segreti civili e militari nazionali e stranieri, volevano provocare un colpo di Stato in Italia, così come accaduto in Grecia nel 1967 e come accadrà in Cile nel 1973.

Quando i fascisti parlano di memoria condivisa e di pacificazione, mai ricordano l’omicidio di Paolo Rossi, il primo morto da loro fatto all’alba della stagione del ’68.

 

Tratto da “Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta” di Marco Capoccetti Boccia, Lorusso Editore

1Cristiano Armati, Cuori Rossi, Newton Compton Editori, Roma, 2008, pp 141-142.

2Francesca Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1/2007, p.173. Per una interpretazione storiografica simile vedi: Vittorio Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 305.

3La strage di stato, Samonà e Savelli, Roma 1970.

4 Cfr. “Il Messaggero”, “L’Unità”, “Paese Sera” del 28/04/1966.

5La strage di stato, Samonà e Savelli, Roma 1970.

6 Nicola Rao, Il sangue e la celtica, Sperling e Kupfer, Milano, 2008, p 63-65. In queste pagine Merlino così ricorda quelle giornate: “Il clima tra noi e i compagni era abbastanza tranquillo. Anzi, c’era un tacito accordo. Erano giorni di campagna per le elezioni universitarie. Per la prima volta a Roma si presentava Primula Goliardica. Ma per il resto noi facevamo propaganda a Legge e i compagni a Lettere, con il rettorato, in mezzo, a fare da spartiacque. Il 27 aprile, di mattina, arrivo all’università e incontro un gruppo di camerati. Ricordo Bruno Di Luia […] ‘i compagni stanno provocando a Lettere e ora li attacchiamo’. Improvvisamente il clima si era agitato. Ricordiamoci che il 27 aprile è la vigilia dell’anniversario della morte del Duce. E i compagni avevano tappezzato l’ingresso di Lettere con una serie di manifesti e di striscioni del genere VI FAREMO FARE LA FINE DI PIAZZALE LORETO, FASCISTI TUTTI APPESI A TESTA IN GIU’ e cose del genere. O fingevi di non vedere- ma non faceva parte della nostra indole- o reagivi… Ci spostiamo a Lettere e incrociamo anche militanti del Pci che non sono della facoltà, alcuni non sono neanche studenti. […] noi saremo stati una quarantina, loro forse sessanta, settanta ma non di più. Improvvisamente c’è lo scontro. Rapido e concitato. Noi saliamo le scalinate di Lettere, siamo quasi tutti a mani nude, e ci scontriamo con loro all’ingresso della facoltà e lungo le scale. Poi retrocediamo e ci fermiamo in fondo alle scale. Fra noi e i compagni si frappone un plotone di carabinieri. Noi gridiamo, inveiamo, insultiamo e i compagni fanno lo stesso al di là del cordone dei carabinieri. A quel punto avviene un fatto imprevisto. Iniziano a uscire dalla facoltà gli studenti che avevano seguito le lezioni. La gente comincia a premere per uscire e vedo, a pochi metri da me, dalla balaustra di marmo all’ingresso di lettere, cadere, a piombo, a corpo morto, senza un lamento, un ragazzo. Che era appunto Paolo Rossi. Lo sollevano subito alcuni studenti che cercano di soccorrerlo e lo portano via. Ora, tra la scazzottata e la caduta dal parapetto di Paolo Rossi è passato diverso tempo. Più di un’ora. Non so se, uscendo, la massa che premeva ha spinto e lui ha perso l’equilibrio ed è caduto. Oppure, come si disse allora aveva ricevuto dei colpi durante gli scontri precedenti e successivamente ebbe un malore o un capogiro. Non lo so. Quel che è certo è che nessuno di noi fascisti lo colpì o peggio, come si disse all’epoca, lo spinse di sotto. […] La sera stessa dell’episodio, ci scontriamo con gli attacchini del Pci che stanno affiggendo manifesti in cui dicono che abbiamo ucciso noi Paolo Rossi. […] Il giorno dopo evitiamo di farci vedere in zone a rischio. Ma la sera successiva ci sono altri scontri con i compagni. Incrociamo delle macchine con la figlia di Ingrao e altri assistenti universitari di sinistra e scoppia una rissa”. Anche il giorno della commemorazione di Paolo Rossi nella città universitaria i neofascisti si presentarono, secondo Merlino, presso l’uscita secondaria dell’università per provocare e insultare gli studenti di sinistra, e ne nasce una violenta colluttazione. Vedi p. 67-68.

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