Confesso che la definizione data al protagonista in una recensione
del libro ‘Non dimenticare la rabbia’, indicato come eroe romantico
della sconfitta mi è assai piaciuta.
Nonostante il pensiero romantico non appartenga proprio all’idea di
sinistra e, nonostante che, l’antagonismo sociale faccia a meno
volentieri di eroi necessitando, invece, di soggetti sociali che
lottano ed esprimono i loro bisogni. E, nonostante che, di sconfitta e
sconfitti si sia parlato fino alla nausea negli ultimi decenni,
talvolta quasi compiacendosene.
Tuttavia, i personaggi che figurano in queste storie di strada, siano
essi ultrà o ultras, militanti politici o semplici e arrabbiati ragazzi
di periferia, paiono, nell’attuale situazione sociale come soggetti
definitivamente sconfitti. Sconfitti da una società che reclama sempre
più ordine e disciplina, che respinge i devianti di ogni tipo, che li
emargina, che li confina, comunque, nel ruolo di teppisti e sbandati.
Nella prima parte del libro troviamo il racconto puntuale e
particolareggiato di una trasferta di ultras sul finire degli anni 80.
Una trasferta a Milano, esattamente di ultrà romanisti. Erano trascorsi
soltanto pochi mesi da quel tragico Milan Roma, prima del quale trovò
la morte il povero Antonio De Falchi un ragazzo di 17 anni massacrato
fuori dallo stadio da alcuni supporters milanisti e deceduto quindi,
come da autopsia, per arresto cardiaco.
Mentre la giustizia faceva affannosamente il suo corso con la condanna
di uno solo dei tre imputati a sette anni per omicidio
preterintenzionale, negli ambienti del tifo estremo romanista si
preparava il grande giorno, quello della vendetta. Il giorno nel quale
il sangue di Antonio De Falchi sarebbe stato lavato con altro sangue,
quello, magari di un ultrà milanista.
Nel racconto dell’autore si avverte tutta la tensione di quel giorno.
Il treno dei tifosi, sporco e scomodo, una zona border line dove
contano soltanto i linguaggi e i codici della curva, quasi una zona
franca. Nello stesso tempo, un luogo dove tanti ragazzi sono ammassati
e trattati come bestie o come deportati. Con l’inevitabile conseguenza
che gli stessi finiscono per introiettare questo misero ruolo, quasi
per compiacersene. Ci trattate come bestie, e noi ci comporteremo
peggio delle bestie. Quasi un alibi sociale a qualsiasi e futura
scelleratezza.
L’arrivo alla stazione di Milano che il protagonista riesce comunque a
osservare con gli occhi incantati di un ragazzino che si allontana, in
una delle sue prime volte, dalla sua casa e dalla sua città indulge
quasi alla tenerezza. Con la meraviglia di guardare qualcosa che non si
conosce ancora, che sorprende, che stupisce. Nonostante la rabbia
maturata e prodotta dentro, nonostante la corazza da incorruttibile
guerriero ultras faticosamente costruita, nonostante sappia, in cuor
suo, di aver intrapreso quel lungo viaggio non con lo spirito di un
normale gitante, ma con la tempra di chi deve assolvere una missione.
E nel seguito del racconto emerge uno straordinario affresco di quel
mondo così a lungo e, in modo impreciso e infruttuoso, narrato da
giornalisti, sociologi e opinionisti di ogni risma. Con i suoi codici,
i suoi linguaggi, con la sua rudezza. Con la rabbia dei giovani attori
e con la loro voglia di protagonismo prodotti aspri di un’alienazione
metropolitana foriera, in questo caso, di forme di semplice e astratto
ribellismo sociale.
Nel racconto emergono i contrasti tra i gruppi della curva e si
evidenziano, per i più attenti alle vicende delle curve stesse, i semi
di quelle trasformazioni che matureranno poi negli anni. Con i giovani
ultras che mettono in discussione l’autorità e i valori dei loro capi,
dei più vecchi. E, di fronte alla repressione poliziesca che negli
stadi si fa già da quegli anni più forte e organizzata, escogitano
nuove forme per trovare comunque lo scontro con il nemico di turno.
Nemico che individuano sempre più, proprio in quelle forze dell’ordine
che, all’alba della storia degli scontri da stadio, svolgevano soltanto
un ruolo neutro, quasi da arbitro fra i diversi contendenti. E che,
invece ora, si trovano al centro della scena.
Cominciano a farsi largo anche nella curva romanista, tradizionalmente
popolare e di sinistra, modelli e riferimenti sociali che faranno da
apripista a quell’egemonia della destra che si affermerà
prepotentemente a partire dagli anni 90. L’odio viscerale nei confronti
dei cosiddetti ‘cani sciolti’, soggetti che rifiutano qualsiasi
appartenenza di gruppo, in fondo dei poveri e indifesi anarchici della
curva, esprime nei nascenti soggetti e nelle nuove firm che si
affermano le parole forti della destra estrema; ordine, disciplina,
gerarchia da ostentare nei comportamenti così come nei costumi sempre
più lontani da quelli del tradizionale tifoso delle squadre del centro
sud, sempre pronto ad ostentare anche sguaiatamente la sua fede
calcistica, e più vicino a quelle delle bande dei supporters
d’oltremanica. Senza sciarpe identificative, con un abbigliamento pieno
zeppo di capi firmati.
In questo, come in altre storie, l’eroe torna a casa sconfitto.
Consapevole di aver comunque fatto per intero il proprio dovere, ma
sconfitto. Nessun ultras milanista è rimasto sul campo di battaglia.
Antonio De Falchi non è stato vendicato.
del libro ‘Non dimenticare la rabbia’, indicato come eroe romantico
della sconfitta mi è assai piaciuta.
Nonostante il pensiero romantico non appartenga proprio all’idea di
sinistra e, nonostante che, l’antagonismo sociale faccia a meno
volentieri di eroi necessitando, invece, di soggetti sociali che
lottano ed esprimono i loro bisogni. E, nonostante che, di sconfitta e
sconfitti si sia parlato fino alla nausea negli ultimi decenni,
talvolta quasi compiacendosene.
Tuttavia, i personaggi che figurano in queste storie di strada, siano
essi ultrà o ultras, militanti politici o semplici e arrabbiati ragazzi
di periferia, paiono, nell’attuale situazione sociale come soggetti
definitivamente sconfitti. Sconfitti da una società che reclama sempre
più ordine e disciplina, che respinge i devianti di ogni tipo, che li
emargina, che li confina, comunque, nel ruolo di teppisti e sbandati.
Nella prima parte del libro troviamo il racconto puntuale e
particolareggiato di una trasferta di ultras sul finire degli anni 80.
Una trasferta a Milano, esattamente di ultrà romanisti. Erano trascorsi
soltanto pochi mesi da quel tragico Milan Roma, prima del quale trovò
la morte il povero Antonio De Falchi un ragazzo di 17 anni massacrato
fuori dallo stadio da alcuni supporters milanisti e deceduto quindi,
come da autopsia, per arresto cardiaco.
Mentre la giustizia faceva affannosamente il suo corso con la condanna
di uno solo dei tre imputati a sette anni per omicidio
preterintenzionale, negli ambienti del tifo estremo romanista si
preparava il grande giorno, quello della vendetta. Il giorno nel quale
il sangue di Antonio De Falchi sarebbe stato lavato con altro sangue,
quello, magari di un ultrà milanista.
Nel racconto dell’autore si avverte tutta la tensione di quel giorno.
Il treno dei tifosi, sporco e scomodo, una zona border line dove
contano soltanto i linguaggi e i codici della curva, quasi una zona
franca. Nello stesso tempo, un luogo dove tanti ragazzi sono ammassati
e trattati come bestie o come deportati. Con l’inevitabile conseguenza
che gli stessi finiscono per introiettare questo misero ruolo, quasi
per compiacersene. Ci trattate come bestie, e noi ci comporteremo
peggio delle bestie. Quasi un alibi sociale a qualsiasi e futura
scelleratezza.
L’arrivo alla stazione di Milano che il protagonista riesce comunque a
osservare con gli occhi incantati di un ragazzino che si allontana, in
una delle sue prime volte, dalla sua casa e dalla sua città indulge
quasi alla tenerezza. Con la meraviglia di guardare qualcosa che non si
conosce ancora, che sorprende, che stupisce. Nonostante la rabbia
maturata e prodotta dentro, nonostante la corazza da incorruttibile
guerriero ultras faticosamente costruita, nonostante sappia, in cuor
suo, di aver intrapreso quel lungo viaggio non con lo spirito di un
normale gitante, ma con la tempra di chi deve assolvere una missione.
E nel seguito del racconto emerge uno straordinario affresco di quel
mondo così a lungo e, in modo impreciso e infruttuoso, narrato da
giornalisti, sociologi e opinionisti di ogni risma. Con i suoi codici,
i suoi linguaggi, con la sua rudezza. Con la rabbia dei giovani attori
e con la loro voglia di protagonismo prodotti aspri di un’alienazione
metropolitana foriera, in questo caso, di forme di semplice e astratto
ribellismo sociale.
Nel racconto emergono i contrasti tra i gruppi della curva e si
evidenziano, per i più attenti alle vicende delle curve stesse, i semi
di quelle trasformazioni che matureranno poi negli anni. Con i giovani
ultras che mettono in discussione l’autorità e i valori dei loro capi,
dei più vecchi. E, di fronte alla repressione poliziesca che negli
stadi si fa già da quegli anni più forte e organizzata, escogitano
nuove forme per trovare comunque lo scontro con il nemico di turno.
Nemico che individuano sempre più, proprio in quelle forze dell’ordine
che, all’alba della storia degli scontri da stadio, svolgevano soltanto
un ruolo neutro, quasi da arbitro fra i diversi contendenti. E che,
invece ora, si trovano al centro della scena.
Cominciano a farsi largo anche nella curva romanista, tradizionalmente
popolare e di sinistra, modelli e riferimenti sociali che faranno da
apripista a quell’egemonia della destra che si affermerà
prepotentemente a partire dagli anni 90. L’odio viscerale nei confronti
dei cosiddetti ‘cani sciolti’, soggetti che rifiutano qualsiasi
appartenenza di gruppo, in fondo dei poveri e indifesi anarchici della
curva, esprime nei nascenti soggetti e nelle nuove firm che si
affermano le parole forti della destra estrema; ordine, disciplina,
gerarchia da ostentare nei comportamenti così come nei costumi sempre
più lontani da quelli del tradizionale tifoso delle squadre del centro
sud, sempre pronto ad ostentare anche sguaiatamente la sua fede
calcistica, e più vicino a quelle delle bande dei supporters
d’oltremanica. Senza sciarpe identificative, con un abbigliamento pieno
zeppo di capi firmati.
In questo, come in altre storie, l’eroe torna a casa sconfitto.
Consapevole di aver comunque fatto per intero il proprio dovere, ma
sconfitto. Nessun ultras milanista è rimasto sul campo di battaglia.
Antonio De Falchi non è stato vendicato.
Di Renato Berretta