Carletto gancio d’oro di Bruno Ikcs

Zozzino lo stura lavandino. Freschetta la super saponetta. Puzzaped la tua soletta anatomica.

Stordito dal caldo e da grammature interessanti di verdure miste vago tra gli scaffali reparto casa di un supermercato sulla Portuense. 

In realtà non devo comprare niente. Non sopporto l’aria condizionata.

L’avventura a piedi sulla salita di Affogalasino mista al caldo mi ha tolto però le forze.

Cerco nel fottio di BTU erogati dalle macchine del freddo il meritato refrigerio.

Avevo superato bagnoschiuma e scopettoni poi giù verso gli alimentari vedo un parapiglia.

 Una ragazza con fare arrogante spintona un anziano.

 Lui si divincola .

Con una testata colpisce la ragazza che con voce tra l’incredulo e il terrorizzato urla :

“Oddio. Flavio Sandro aiutooooooo!  Stanno a rubbà aiutooooo!”

Poi si guarda la divisa del supermarket  sporca di sangue che gli cola con un rigagnolo dal naso.

Forse è rotto.

Si mette una mano sotto le narici poi la guarda.

Si è proprio sangue e come se qualcuno l’avesse spenta sviene.

L’anziano si butta sotto uno scaffale.

Non per nascondersi  sarebbe da stupidi.

Mi avvicino cerco di capire.

I tanto agognati Flavio e Sandro arrivano.

Lui emerge da sotto lo scaffale e facendola scivolare sul pavimento liscio e lucido mi tira una cosa rossa  striata di bianco che sembra  una spuntatura di maiale.

“ Prennila te prego. Senza ‘n posso vive.”

 Metto in tasca il pezzo di carne che carne non è.

 E’ viscida e fredda. E’ una dentiera.

“ In guardia buffoni “ ringhia lo sdentato.

“ So ancora er mejio gancio de Trestevere!”

Effetivamente prima il tanto agognato Flavio poi il tanto agognato Sandro cadono giù con due ganci incredibili.

Da fermo. Con una posizione del busto che ricorda molto quella di Marvin Hagler o del primo Mike Tyson. Quello che parlava con i piccioni e picchiava la moglie. Si dice influenzato dai piccioni.

 Comunque i due vanno giù che è una bellezza .

 Knock out pulito. Senza discussioni.

 Il bello è che li colpisce una sola volta.

 Prima destro poi sinistro.

 Una serie favolosa.

 Stile e tecnica .

Rimango senza parole stringendo quella cosa viscida che ho in tasca.

 Nel frattempo arriva un guardione della sicurezza che lo placca in stile rugbistico.

 Il  tipo in divisa è un bell’armadietto ma stranamente non si comporta male. Anzi lo allontana cercando di    tappargli la bocca con aria preoccupata mentre lui urla intrepido:

“ So Carletto Gancio D’oro ho messo a terra Monzon io. Che cazzo vonno sti du nanetti .”

 Riferendosi ai tanto agognati Flavio e Sandro che senza alcuna vergogna rimangono a terra forse per paura di un’altra ripresa.

Hanno chiamato la Polizia.

Scende dalla volante un graduato. Entra con tutta calma nel Supermarket. L’altro aspetta fuori con il motore acceso.

“ Chi fa l’antitaccheggio qui? “ domanda agli inservienti.

Gli risponde il tanto agognato Flavio che nel frattempo s’è alzato da terra mentre l’altro è ancora seduto con le spalle poggiate allo scaffale.

 “Qui non c’è nessuno che fa questa cosa. Siamo noi che ci lavoriamo… Nei limiti del possibile cerchiamo di farlo.. .Poi c’è la vigilanza privata che interviene solo in casi come questo “ e lo dice smascellando come un sedicenne al primo rave. 

“ Va bene allora chiamatemi la vigilanza privata. Dov’è il ladro?”

Dopo un pò di trambusto arriva il guardione ha la divisa strappata e qualche escoriazione sul viso.

 Arriva a mani vuote. Il ladro non c’è.  Il poliziotto perde le staffe.

“Lei mi deve spiegare come ha fatto a farsi sfuggire quel ladro…Gli inservienti  dicono che era un anziano e lei mi sembra ben piazzato e presuppongo addestrato…..”

“Vede “ gli risponde il guardione.

 “Il signore anziano ha dimostrato una certa forza .”

“Ha steso quei due in pochi secondi. Io sono riuscito a fermarlo. Quando ho mollato un pò la presa per immobilizzarlo meglio mi ha colpito forte e sono caduto.”

“Poi si è dileguato in strada e l’ho perso.” 

“Insomma tra le altre cose questo vecchio correva piuttosto velocemente?”

Ribatte il poliziotto con un insospettabile tono ironico.

Il graduato non sembra troppo convinto della spiegazione.

Intanto io mi defilo sempre con la cosa viscida in tasca.

Non voglio essere coinvolto.

Stò dalla parte dell’anziano questo è certo.

Poi è uscito fuori che aveva rubato un fissativo per dentiere e che la tipa del supermarket avvertita da un cliente ( aggiungo di merda.. non poteva farsi gli affari suoi?) lo aveva seguito e tentato di perquisire. Neanche fosse lei una guardia. Neanche fosse suo il supermercato.

 Comunque inizio a  guadagnare l’uscita .Il guardione supera il capannello di gente che si è formato al reparto alimentari.

Si avvicina a me.

“Carletto dice che tu hai la sua dentiera. Resta  calmo l’ho fatto scappare io. Due ore e stacco. Per cortesia fatti trovare al bar all’angolo. Non ti preoccupare a tutto c’è una spiegazione…”

Annuisco come a dire si. Non faccio domande.

 Le due ore le passo a gironzolare per i Colli Portuensi  con tutta la fighetteria di ordinanza che guarda le vetrine dei negozi ma non compra niente.

 Penso che per assurdo muove più l’economia Gancio d’oro rubando che questi commercianti dai prezzi  improponibili. Un paio di Jeans non può costare duecento euro. Neanche quello più fashion se li compra.

Assisto ad una discussione assurda per un parcheggio. Due ambulanti litigano per un pezzo di marciapiede. Non si capisce in che lingua.

Comunque la risolvono dividendo a metà lo spazio. Un piccolo esempio di socialismo nel quotidiano.

L’idea  mi frulla in mente insieme a uno slancio di pensieri positivi.

Raggiungo il bar all’angolo che mi era stato indicato. Mi siedo al tavolo e ordino un acqua tonica aspettando il guardione.

 La cosa viscida oramai abita le mie tasche vive di vita propria. Se mi muovo si muove anche lei emettendo un suono simile alle maracas.

Sembra di stare in un disco di Harry Belafonte.

Il guardione arriva e si presenta  tendendomi la mano.

“ Ciao mi chiamo Andrea  e sono un amico di Carletto Gancio d’oro. “

 Mi presento con la mano viscida di dentiera . Questa volta chiedendo spiegazioni.

“ Lui mi ha aiutato molto quando da Matera sono arrivato a Roma.

 Qui mi sono laureato in Informatica pagandomi da vivere con il lavoro che mi dava Carletto in palestra.

 E’ stato un grande pugile. Lo hanno estromesso dalle Olimpiadi di Città del Messico. Sarebbe stato convocato nella rappresentativa nazionale.

Pochi mesi prima della partenza durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam  ruppe un braccio ad un dirigente di Polizia. Fu arrestato. Picchiato in carcere dai secondini  che lo ridussero in fin di vita. Uscì con la condizionale dopo quasi due anni. In tempo per mettere a tappeto Carlos Monzon. La bestia .”

“ Ma come ? Davvero ha messo per  terra Monzon ?”  rispondo io.

“ Allora anche a te piace il pugilato? “ mi domanda  Andrea.

Rispondo che si mi piace. Da ragazzino l’ho anche praticato per poi passare al nuoto che è il mio sport preferito. Soprattutto senza contatto fisico perché i pugni fanno male.

Dico anche che non lo seguo più. Non ci sono boxeur  in grado di entusiasmarmi  tranne il nostro Gancio d’oro che in quel ring immaginario del supermarket  è stato un grande.

“ Anche io non ci credevo alla storia di Monzon “ incalza Andrea.

 “Poi lavorando in palestra ho potuto capire che era vera.”

 Andrea  continua a raccontare.

 “ I fatti stanno così. Nel millenovecentosettanta  Nino Benvenuti  decide di avere come sfidante per il titolo mondiale dei pesi medi il semisconosciuto Carlos Monzon. Quì a Roma.

 Una scelta che visto come sono andate poi le cose non si rivelò appropiata.

 Comunque l’argentino con il destro di ferro aveva bisogno di sparring partners per prepararsi all’incontro.

 La paga non era male e tramite le conoscenze che aveva nel l’ambiente Carletto riuscì a salire su quel ring per  incrociare i guantoni con il futuro campione del mondo.

 Ti premetto che gli altri sparrings non erano andati benissimo.

Monzon si lamentava. Diceva che erano troppo scarsi  anche solo per fare una ripresa con lui. “

In un attimo mi sento a bordo del quadrato. Sembra di vederli  Gancio d’oro e Monzon che danzano sulle punte. Scrutandosi. Cercando di capire l’uno le debolezze dell’altro.

Dopo aver  ordinato un caffè freddo Andrea  continua il suo racconto.

“Gli organizzatori spiegarono a Carletto che El Macho si era lamentato degli sparrings.

Chiedeva gente con  grinta.

Lui al titolo ci puntava e non si poteva allenare seriamente con gente che al primo montante cadeva giù.” 

“Salì sul ring il primo giorno per cinque riprese da tre minuti. Senza mai cadere a terra. Non era in forma ma la tecnica e la voglia di dimostrare a se stesso di essere ancora  un pugile lo fecero rimanere in piedi. Sotto i diretti destro di Monzon che menava come un indemoniato.”

Andrea  si accende una sigaretta e me ne offre una che fumo volentieri. Continua a raccontare.

“Il secondo giorno gli organizzatori gli dicono che l’argentino vuole solo lui come sparring.”

Il tavolo dove eravamo seduti perde l’ombra che lo aveva reso così ambito. Ci alziamo. Andrea insiste per pagare il conto. Lo lascio fare.

A piedi raggiungiamo quasi Villa Pamphili.

All’altezza della Circonvallazione Gianicolense  troviamo una panchina all’ombra e ci sediamo per un’altra sigaretta.

Nel tragitto Andrea mi racconta la sua vita in pillole. La laurea come studente fuori corso la speranza di fare l’Ingegnere Informatico gli stages non pagati per le grandi aziende.

La promessa di un assunzione mai mantenuta e alla fine il ripiego su quel lavoro.

Per non tornare a Matera tra i sassi.

“ Sono gli unici che mi hanno proposto un contratto vero. Insomma con le ferie pagate e tutto il resto. E’ un lavoro di merda lo sò ma a fine mese i soldi ci sono. Non è una gran cifra. Però mi permette di vivere dignitosamente. “

“E poi devo dire che sotto questo punto di vista Roma mi ha deluso. Pensavo  che la Laurea e la buona volontà fossero sufficienti . Invece no. Qui  c’è bisogno delle conoscenze che ti aiutano oppure non arrivi da nessuna parte.”  

Provo a rincuoralo cercando di strappare un sorriso alla sua ingeniuità. Dico che la vita quì è sempre più difficile anche per noi che ci siamo nati.

La cosa viscida che ho in tasca continua a tintinnare quando mi muovo. Sempre su ritmi caraibici forse influenzata dal caldo che solo in una lontana vacanza in Messico avevo sentito così asfissiante.

 “Tieni questa è di Gancio d’oro “ gli passo la dentiera  che intanto ha smesso di suonare.

“No aspetta “ mi risponde Andrea.

“Non siamo molto lontani da casa sua .Che poi è attaccata alla mia.”

“ Credo sarebbe felice di conoscerti. Sa essere riconoscente con chi si comporta bene con lui.”

Gli rispondo stizzito che non sono in cerca di ricompense. Volevo solo liberarmi di quella cosa viscida e a questo punto anche sapere di Monzon che andava a tappeto sotto i colpi di Gancio d’oro.”

“Dai vieni con me. Ci vuole poco ad arrivare così la storia la racconta lui. Di persona.”

 Andrea  insiste ed io dopo qualche esitazione mi faccio convincere.

Arriviamo che oramai sta facendo sera . Il caldo sembra non placarsi nonostante una leggera brezza che  mette buon umore.

Andrea  bussa ad una porta. Dentro si sente rispondere.

“ Chi sei?  Nun c’avemo bisogno de gnente. Ciavemo tutto puro ‘e  malattie! “

 E giù una risata d’altri tempi . Mista di catarro e sigarette senza filtro.

“ Sono Andrea..Apri  ti ho riportato la dentiera.”

 Si sente il tamburo della serratura che gira.

Tlic -tlac e la porta è aperta.

“Mò chi è stò cazzabbubbolo?”

Gancio d’oro brucia con uno sguardo Andrea considerandomi un intruso.

“Mettiti  gli occhiali così lo riconosci” sospira Andrea con un sorriso divertito.

“ Aò io nun lo riconosco manco co l’occhiali.”

Mi tolgo il cappellino dei Knicks che al supermercato non portavo.

Lui da sfogo alla poltiglia senza filtro aggrappata alle corde vocali con una risata che risuona per tutta la stanza.

“ Bellooooo!  M’hai riportato i denti  così posso magnà mpò de carne che senza ‘ncè riesco”

Mi presento con tutti i convenevoli del caso dopo avergli restituito la cosa viscida.

“Ma che te sei messo paura ar Supermercato?”

Parla ad alta voce Gancio d’oro riposizionando l’attrezzo vitale senza neanche lavarlo.

“E’ che non riuscivo a capire la situazione. E’ stato tutto così veloce.”

“ Gancio d’oro è ancora un fulmine anche se oramai perde colpi.”

Una voce femminile irrompe nella stanza che improvvisamente diventa colorata. 

“Giovanna sei arivata? Nun sei entrata dalla porta vero? “

“ No Sor Carlo. Sò entrata dar giardino. Ha lasciato aperto il cancelletto come al solito. Poi se lamenta se je rubbano i limoni.”

Gancio d’oro sbotta. “ Ehhee ! Se ce li pijo però me diverto!”  fregandosi  le mani che ora guardo meglio e sembrano mastodontiche. 

“ Piacere Giovanna . Abito nell’altro appartamento ma quando torno dal lavoro er Sor Carlo è tappa fissa.”

Si presenta  e poi si scioglie i capelli di un biondo mesciato abbastanza acido e delicato da sembrare castano.

Il  vestito a fiori gli da un’aria da “Happy Days”

Gli occhi scuri ma non troppo sovrastano il sorriso più bello del mondo.

Non c’è dubbio mi piace.

Come al solito cerco di capire perché in pochi secondi si apre la prospettiva di un mondo diverso e migliore. Fino a quel momento mai immaginato. Almeno per me che resto a guardarla mentre saluta Andrea.

Non è il suo ragazzo. Non l’ha baciato.

Penso tra me e me scoprendomi prematuramente geloso.

Cerco di spiegare l’inspiegabile. Scarto le cose più banali.

Edipo insinua maligno la mia predilezione per  la terza spinta e i fianchi generosi.

La motivazione per questo fermento però la trovo lì. Nascosta nel suo modo di sistemare i capelli.

Dietro le orecchie che sembrano disegnate.

Muovendo le dita con un movimento sensuale e allo stesso tempo dolce.

Simile a quello delle ballerine indiane.

Dopo pochi minuti saluta. Questa volta con un bacio sulla guancia promettendo a Gancio d’oro di passare il giorno successivo.

Quando arriva il mio turno si lega di nuovo i capelli e la trazione esercitata le risalta gli zigomi.

“ Te lo ha raccontato di Monzon?”

Istintivamente mi viene da rispondere ” Monzon chi?”

Invischiato come sono nei pensieri che vedono me e lei come attori principali.

Viaggi – scopate selvagge – litigi per poi fare l’amore di nuovo.

Una casa. Un auto. Figli bellissimi.

Cerco la forza per non fare una figuraccia. Per uscire dal sogno.

“No ancora non mi è stato raccontato” rispondo con la più inutile delle voci.

“Ehhe.. allora rimango ancora qualche minuto. Adoro questa storia. Soprattutto raccontata dal Sor Carlo.”

Si siede vicino a Gancio D’oro sul divano in finta pelle.  Andrea prende una scatola di cartone e la dà a lui.

“Qui ci sono tutti i miei ricordi. Le sconfitte e le vittorie. Quello che ero. Quello che sono ora.”

Nulla da dire sul suo Italiano improvvisamente perfetto.

Come prima cosa mi mostra  un paio di guantoni raggrinziti di cuoio marrone.

Poi la foto di lui in posa da campione con la guardia sinistra e lo sguardo famelico.

Una tromba che dice di saper suonare  e il diploma di laurea dell’Isef.

“Uscito di galera conobbi Anna che presto diventò mia moglie.”

 Mi mostra una foto di una donna minuta circondata da bambini in grembiule e fiocco.

“Lei era una maestra elementare. Mi spinse prima a prendere un diploma alle scuole serali.

 Poi l’Isef dove mi laureai con una tesi sulla storia del pugilato”

“Ho insegnato educazione fisica prima come sostituto in varie scuole romane. Poi fino alla pensione in un istituto tecnico a Frascati.”

Sono sorpreso non mi aspettavo Gancio d’oro professore di ginnastica. I suoi studenti devono essersi divertiti parecchio con lui. Forse imparando anche qualcosa.

“Fino ai primi anni novanta gestivo una palestra dove ha lavorato anche Andrea. Poi ho mollato. Volevo ritirami da tutto. Anna era morta da poco e questa casa che avevamo finito di pagare rimase vuota. Andrea venne ad abitare con me poi conobbe Elena la cugina di Giovanna che abita dall’altra parte della strada e da allora mi ha abbandonato anche lui”

“Ma dai! Passo più tempo quì che a casa mia”

Andrea protesta con un sorriso.

“ Io ed Anna non abbiamo avuto figli. Quindi una volta che lei non c’era più mi sono ritrovato completamente solo e vecchio. Poi  Andrea Giovanna ed Elena sono diventati la mia famiglia. Siamo una squadra noi . Lottiamo per vivere. Insieme.”

Impaziente chiedo di Monzon che và knock Out.

“Si aspetta prima devi sapere una cosa. So che Andrea ti ha raccontato dell’incidente alla manifestazione.”

“E’ stato un caso io non dovevo essere lì. Ero da un amico a pranzo poi siamo usciti per un caffè. Il corteo si snodava sulla via ma senza problemi. Lateralmente la Polizia caricò a freddo. Ne fummo travolti. Persi il mio amico che si rifugiò in un negozio e rimasi lì in balia degli eventi. In una frazione di secondi mi ritrovai con i polsi stretti da uno con la fascia tricolore che gridava: “ Pezzi di merda vi ammaziamo tutti!”

“Non c’entravo niente con quella situazione. Non mi occupavo di politica anche se la guerra in Vietnam la consideravo sbagliata. Semmai ci fossero guerre giuste. Fatto stà che quello stringeva portandomi verso la camionetta.”

“Zitto stronzo! Adesso ti porto in caserma e vediamo se non c’entri niente come dici tu.”

“Con una mano mi teneva e con il manganello mi picchiava sulla schiena. Al terzo colpo ho ruotato il corpo e non sò come sono riuscito ad incastrare il manganello con il suo braccio che mi bloccava. Un urlo sordo. Il suo braccio penzolava. L’osso dell’ulna era completamente fuori dalla carne.Spezzato. Riuscii a correre per poco poi tutta la Celere di Roma mi era addosso.”

Giovanna si alza e si avvicina alla finestra. Adesso posso vedere le sue gambe tornite e belle niente a che vedere con l’anoressia delle nuove Pin up. Orrende Zombies.

“Ma insomma la racconti o no stà storia di Monzon?”

Giovanna strabuzza gli occhi che si riempiono di luce nell’attesa di un racconto che avrà sentito decine di volte. Ma io no. Non ancora.

“Va bene va bene..”

Gancio d’oro si alza in piedi e sposta un tavolino che era accanto al divano poggiandolo alla parete a formare un angolo retto.

“Fai conto che questo è il ring. Io mi trovavo stretto alle corde. Erano giorni che andava così. Lui picchiava ed io incassavo cercando di portare qualche colpo. Dalle corde cercavo di portarlo al centro ma niente lui mi ributtava lì. In uno di questi balletti mi ritrovai all’angolo sempre massacrato dai suoi montanti e diretti destro. Feci un passo in uscita portando una parte del corpo fuori come a scartare così trovai un autostrada per colpirlo forte con il gancio sinistro. Cadde subito come il silenzio che improvvisamente regnava a bordo del quadrato. L’allenatore venne con i sali per farlo riprendere ma se avessero dovuto contare i secondi avrei vinto io. Alla terza ripresa.”

Rimango affascinato dal suo racconto. Mi fa vedere altre foto con Monzon e la cintura di Campione del Mondo sfilata a Benvenuti. Un biglietto con scritto “ Vos es el Campeon “ firmato da El Macho.

Poi mi spiega che prima di partire per l’Argentina Monzon lo convocò nel suo albergo. Le consegnò i guantoni con i quali aveva battuto Benvenuti e quel biglietto. Anche cinquecentomilalire come regalo che non poteva rifiutare. Quei soldi contribuirono a farlo entrare in società con Ballarati nella palestra a Trastevere.

Disse che il campione Argentino lo ringraziò tantissimo che senza quella caduta a terra non avrebbe vinto.

Cose da pugili penso io.

Si è fatto tardi ed anche se mi invita a cena preferisco non rimanere.

“Prima che te ne vai voglio spiegarti che io non rubo per necessità. Quel che ho mi basta per comprare le cose che mi servono. Rubo per principio.”

L’affermazione di Gancio d’oro mi fa pensare ai dieci comandamenti anche se non sò in che posizione della classifica è non rubare.

“Prima che ci fottesero con l’euro esistevano molti negozi che vendevano tutto a mille lire. Il giorno dopo era tutto ad un euro che sono quasi duemilalire. Questo io lo chiamo rubare quindi mi comporto di conseguenza.”

Il ragionamento di Gancio d’oro non fà una piega anche se sembra una battaglia solitaria. 

“Poi non sono il solo a pensarla così.Oramai conosco un sacco di gente che lo fa. Non tutti per necessità te lo dico per certo.”

Andrea interviene. “ Si va bene Carletto ma la prossima volta evita di venire a rubare dove lavoro”

“Guarda che volevo metterti alla prova….” risponde Gancio d’oro con un ghigno beffardo.

Per  niente risentito Andrea la prende a ridere così come Giovanna ed io che mi unisco a loro.

“Tieni questo è per te” Gancio d’oro mi dà uno dei due guantoni che aveva tirato fuori dalla scatola.

“Voglio farti questo regalo perché sei stato in gamba. Hai capito la situazione e sei stato zitto. Mi hai riportato la dentiera.Senza avere paura.”

Lo prendo anche se non saprei che farmene poi mi spiega che quel guantone ha buttato giù Monzon.

“No dai questa è una reliquia! Tienila tu non devi….” provo a non accettare ma intanto lui si prende il mio cappellino dei Kniks e se lo mette in testa.

“Io prendo il cappello con la visiera che mi serve . Tu prendi quel guantone e basta…”

Non provo neanche a contraddirlo stringo il guantone con le mani. Infondo me lo sono meritato.

Ci lasciamo con la promessa di rivederci presto. Giovanna dice che tutte le domeniche fanno un pranzo in giardino e che da ora in poi faccio parte della famiglia di Gancio d’oro quindi non posso mancare.

Cerco un autobus che mi riporti a casa. Stringendo ancora quel guantone.

Certo di trarne la forza.

Per  un’estate che non è ancora finita.

Per  l’autunno che arriverà.        

ASCOLTI CONSIGLIATI DALL’AUTORE

Harricane-  BOB DYLAN

Gimme some Thruth – JOHN LENNON

Bridge over  the Troubled Water-  ELVIS PRESLEY version

The Bed-  LOU REED

Some girls are bigger than others – THE SMITHS

 

ASCOLTI CONSIGLIATI DA GANCIO D’ORO

Sonata per pianoforte KV 331 III . Rondò alla Turca – W.A.MOZART

I fall in love too Easily- CHET BAKER

Flamenco Sketches- MILES DAVIS

Sempre- GABRIELLA FERRI

Verranno a chiederti del nostro amore- FABRIZIO DE ANDRE’

CARLETTO  GANCIO  D’ORO    un racconto di    BRUNO IKCS      creative commons  2012

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1 Maggio Internazionalista a Torpignattara!

20130501 nostro 1 maggio

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27 Aprile 1966: l’assassinio da parte dei fascisti del compagno Paolo Rossi a “La Sapienza”

Il 27 aprile del 1966,  viene assassinato Paolo Rossi, studente socialista e antifascista sulla scalinata della facoltà di Lettere de La Sapienza. Viene ucciso durante un attacco fascista all’università di Roma guidato da Delle Chiaie, allora leader del gruppo fascista La Caravella. Al suo fianco ci sono il famigerato squadrista Serafino di Luia e Mario Merlino. Si presume che fu Merlino a far cadere Paolo Rossi dalle scale della facoltà, dopo averlo ripetutamente colpito. Come testimoniano le persone presenti e molte foto, sono numerosi gli studenti che vengono picchiati dai fascisti con il silenzio complice della Polizia che non intervenne. Scrivo che si presume poiché non ci fu nessun processo, nessuna verità giudiziaria, come avvenne spesso in quegli anni la Magistratura con l’aiuto insabbiatorio della Polizia non fece alcuna seria indagine e archiviò il tutto derubricandolo a una rissa fra studenti.

Ci fu allora una reazione ferma e decisa dell’antifascismo universitario, fu in linea di massima una protesta determinata ma pacifica e democratica, lontana dall’antifascismo militante che caratterizzò gli anni ’70. Ma fu finalmente una prima risposta alle tante incredibili aggressioni squadristiche che caratterizzarono Roma fin dal 1945 al 1966, quasi sempre senza reazione. Furono occupate alcune facoltà e allontanati i fascisti che continuarono a provocare, aggredire, attaccare.

[…] La mattina del 27 aprile, sulla scalinata della facoltà di lettere, Paolo Rossi, uno studente socialista di architettura di appena 19 anni, iscritto alla gioventù socialista, viene circondato da un folto gruppo di neofascisti. La sua colpa? Nel momento dell’aggressione stava distribuendo volantini dell’Unione Goliardica Italiana […], posizioni in fondo moderate ma evidentemente fastidiose. A Paolo Rossi, un ragazzo alto e forte nonché provetto rocciatore, costano i calci e i pugni dei suoi aggressori: colpi micidiali scagliati da una massa inferocita che, malgrado i continui richiami al coraggio e al senso dell’onore, non si fa scrupolo di infierire contro una persona disarmata e sola. Su un volantino d’Avanguardia nazionale , d’altro canto, i sedicenti rivoluzionari di Delle Chiaie avevano scritto: “Prima di partire i nostri vengono preparati moralmente, perché imparino a spaccare le ossa anche a uno che si inginocchia e piange”. Paolo Rossi, percosso selvaggiamente, né si inginocchia né piange. Poco distante dal luogo dell’aggressione, un nutrito corpo di agenti di PS comandati dal commissario D’Alessandro osserva la macabra scena ma non interviene. Ed è così che Paolo Rossi , travolto dal gruppo di picchiatori, sbarra gli occhi, barcolla e, alla ricerca di una via di fuga, trova i cinque metri di vuoto che, come una voragine, si aprono su un lato della scalinata. Il tonfo di un corpo umano che precipita dall’alto produce un rumore sordo e terrificante: Paolo Rossi cade e non si rialza mai più1.

La ribellione degli studenti e anche quella dei professori fu immediata ma in effetti non portò alla nascita di un vero e proprio Movimento studentesco antifascista, anzi, i neofascisti, dopo una breve e determinata reazione degli studenti e dei professori di sinistra, continuarono a imperversare nelle facoltà per almeno altri due anni, fino alla nascita del Movimento del ’68.

In quell’occasione si era mobilitata l’intera sinistra democratica, in nome di un antifascismo rivendicato come fondamento della legalità repubblicana. Lo stesso giorno dell’incidente era stata occupata la facoltà di Lettere, sgomberata nella notte dalla polizia; il mattino successivo un’imponente assemblea di studenti e docenti, seguita nel pomeriggio da un comizio in cui avevano parlato Ferruccio Parri, Nuccio Fava, presidente dell’UNURI (Unione universitaria rappresentativa italiana) e Marcello Inghilesi, presidente dell’Unione goliardica italiana, aveva deciso l’occupazione di otto facoltà e istituti. L’assemblea notturna del 28 aprile votò a grandissima maggioranza un documento in cui si deliberava un’occupazione a oltranza fino al conseguimento di due obiettivi: il primo, le dimissioni del rettore Ugo Papi, accusato di non aver impedito il ripetersi di provocazioni e violenze da parte dei gruppi dell’estrema destra; il secondo, “lo scioglimento delle organizzazioni parafasciste di studenti universitari, applicando la lettera e lo spirito della legge e della Costituzione con il conseguente ripristino della vita democratica nell’università”. Il 29, davanti a una grande folla radunata nel piazzale della Minerva, si svolgevano i funerali: l’orazione funebre fu pronunciata dall’italianista Walter Binni, ordinario nella facoltà. Il rettore si dimetteva il 2 maggio, e il 3 l’assemblea plenaria degli studenti, docenti e rappresentanti del personale non insegnante votava la fine dell’occupazione. I protagonisti del fronte che si era mobilitato per la morte di Paolo Rossi erano molto diversi da quelli del movimento del ’68. Certo, ci furono allora segnali chiari, soprattutto fra gli studenti, dell’emergere di un nuovo radicalismo insofferente della logica politica che accomunava i partiti nazionali e le associazioni politiche studentesche dell’ORUR (Organismo rappresentativo universitario romano). Ma il carattere prevalente dell’occupazione per Paolo Rossi era dato dalla cultura e dalla pratica politica che accomunava in un impegno attivo un’élite di giovani studente universitari dediti agli studi e alla politica universitaria insieme a un’ampia rappresentanza di docenti democratici. Diversi furono allora anche i modi e i contenuti della mobilitazione: di fronte all’intervento con la forza della polizia la notte della prima occupazione, studenti e professori avevano risposto con una composta resistenza passiva, facendosi portare via a braccia. Nelle facoltà e negli istituti occupati, nessuna scritta sui muri, e tanto meno nessun danno agli ambienti e alle cose. Alla base, infine, il richiamo alla legalità e ai principi della democrazia rappresentativa, espressa peraltro in quel contesto anche dal ruolo dei “partitini” dell’ORUR 2.

La storiografia militante si discosta da questa interpretazione e, relativamente a Paolo Rossi, lo ricorda come il primo studente di sinistra ucciso dai fascisti, tanto che la facoltà di Lettere in cui morì divenne nel corso degli anni uno dei principali motori dei movimenti di lotta romani e nazionali. Soprattutto la letteratura politica dell’epoca prefigura la reazione che ne conseguì come un primo moto studentesco antifascista di quello che sarà il Movimento del 1968. Infatti nel libro La strage di Stato, testo di riferimento negli anni a venire per migliaia di militanti della Nuova Sinistra,quello che accade dopo la morte di Rossi è interpretato come un nuovo modo di praticare l’azione antifascista e antistatuale degli studenti.

La morte di Paolo Rossi risveglia le coscienze, mobilita i giovani della nuova sinistra. Alcune facoltà vengono occupate. La notte tra il 28 e il 29 gli squadristi di Delle Chiaie aggrediscono nuovamente alcuni studenti isolati, bloccano l’auto su cui viaggia la figlia del deputato comunista Pietro Ingrao assieme a due amici assistenti universitari, a uno dei quali un colpo di coltello asporta la falange di un dito. […] Il 2 maggio tutta l’università romana è occupata. Tremila studenti riuniti in assemblea e 51 docenti titolari di cattedra denunciano in una lettera inviata al presidente della Repubblica “la situazione di violenza e illegalità che regna nella città universitaria dove un’infima minoranza di teppisti che hanno fatto propri i simboli del nazismo, del fascismo, delle SS e dei campi di sterminio possono impunemente aggredire studenti e professori che non condividono metodi e idee appartenenti al più vergognoso passato e condannati dalle leggi di tutti i paesi civili”. E concludono: “Di fronte a questo stato di cose, anche noi ci sentiamo responsabili della morte di Paolo Rossi perché abbiamo tollerato tutto ciò sino ad oggi”. Il giorno precedente un corteo di centinaia di operai si era recato alla Città Universitaria per portare la propria solidarietà agli studenti occupanti. Il ministro della pubblica Istruzione, a scanso di guai ulteriori, costringe alle dimissioni chi, più degli studenti e dei professori democratici, è stato responsabile per anni della situazione che ha portato alla morte di Paolo Rossi: il rettore Ugo Papi. […] Eppure i fascisti attaccano ancora. Il 2 maggio 300 squadristi guidati da Caradonna e Delfino danno l’assalto alla facoltà di Legge: ma ormai gli studenti sono in grado di reagire e di battersi e anche la polizia interviene. In realtà, la presenza dei fascisti si era rivelata utilissima per la creazione nell’Università di quel clima di terrorismo e di rissa latente su cui il vecchio corpo accademico, incolto e clientelare, fonda le sue tradizionali fortune. Impossibilitati a sviluppare la dialettica delle idee, gli studenti di sinistra stentavano a mettere a fuoco gli obiettivi di lotta avanzati e restavano prigionieri della logica anacronistica, anche se legittimata da esigenze di conservazione fisica, della battaglia antifascista. Dall’esperienza di quegli anni il corpo accademico e, più in generale, le forze interne all’apparato statale. trarranno utili indicazioni per il futuro: in quel momento, l’applicazione di alcuni elementari principi costituzionali nell’ambito universitario nasce più dalla paura della reazione studentesca che da una, sia pur tardiva, resipiscenza democratica delle autorità3.

Nonostante il clamore suscitato dalla protesta studentesca, che fu ampiamente riportata sui giornali dell’epoca4, il Giudice Istruttore dichiarò non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti e che il motivo della morte era evidentemente un malore e che il caso andava archiviato. Questa scelta contribuì notevolmente a sviluppare l’idea che i neofascisti godevano di una impunità pressoché totale per i loro attacchi violenti contro gli studenti e i militanti di sinistra, poiché la magistratura non si limitava a chiudere un occhio, ma entrambi, anche nei casi più eclatanti di violenza neofascista come quello che aveva condotto alla morte di Paolo Rossi.

Tuttavia, con una modalità simile a quella che si manifesterà anche per altri omicidi politici degli anni a venire, sono i gruppi di controinformazione del Movimento a mettere in luce la responsabilità dei neofascisti per quanto riguarda l’omicidio di Paolo Rossi.

Già nel libro La strage di Stato vengono indicati, infatti, come possibili responsabili dell’azione omicida, un gruppo di fascisti che negli anni successivi diventeranno famosi in quanto mandanti, o autori materiali, delle stragi che insanguineranno l’Italia.

Anche le foto dello scontro tra neofascisti e studenti in cui fu ucciso Paolo Rossi, parlano chiaro, mostrando fascisti che si accaniscono su studenti isolati, mentre i poliziotti stanno a guardare. Riconoscibilissimi sono Serafino Di Luia, Flavio Campo, Saverio Ghiacci, Adriano Mulas-Palomba, Alberto Questa, Loris Facchinetti e Mario Merlino5.

Lo stesso Merlino conferma la sua presenza in quella situazione di scontro, pur senza ammettere alcuna responsabilità di sorta per la morte di Paolo Rossi6.

Alcuni di questi neofascisti continueranno incredibilmente a essere protagonisti di diverse manifestazioni universitarie e, in almeno un paio di occasioni, lo saranno al fianco degli studenti di sinistra, in quello che è passato alla storia come il Movimento del 1968. Oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che la loro presenza fu assolutamente provocatoria, su indicazione di provocatori di professione come Freda, Rauti, Delle Chiaie, che non volevano affatto sovvertire dal basso e in maniera unitaria insieme agli studenti di sinistra la società italiana, ma che in combutta con servizi segreti civili e militari nazionali e stranieri, volevano provocare un colpo di Stato in Italia, così come accaduto in Grecia nel 1967 e come accadrà in Cile nel 1973.

Quando i fascisti parlano di memoria condivisa e di pacificazione, mai ricordano l’omicidio di Paolo Rossi, il primo morto da loro fatto all’alba della stagione del ’68.

 

Tratto da “Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta” di Marco Capoccetti Boccia, Lorusso Editore

1Cristiano Armati, Cuori Rossi, Newton Compton Editori, Roma, 2008, pp 141-142.

2Francesca Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1/2007, p.173. Per una interpretazione storiografica simile vedi: Vittorio Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 305.

3La strage di stato, Samonà e Savelli, Roma 1970.

4 Cfr. “Il Messaggero”, “L’Unità”, “Paese Sera” del 28/04/1966.

5La strage di stato, Samonà e Savelli, Roma 1970.

6 Nicola Rao, Il sangue e la celtica, Sperling e Kupfer, Milano, 2008, p 63-65. In queste pagine Merlino così ricorda quelle giornate: “Il clima tra noi e i compagni era abbastanza tranquillo. Anzi, c’era un tacito accordo. Erano giorni di campagna per le elezioni universitarie. Per la prima volta a Roma si presentava Primula Goliardica. Ma per il resto noi facevamo propaganda a Legge e i compagni a Lettere, con il rettorato, in mezzo, a fare da spartiacque. Il 27 aprile, di mattina, arrivo all’università e incontro un gruppo di camerati. Ricordo Bruno Di Luia […] ‘i compagni stanno provocando a Lettere e ora li attacchiamo’. Improvvisamente il clima si era agitato. Ricordiamoci che il 27 aprile è la vigilia dell’anniversario della morte del Duce. E i compagni avevano tappezzato l’ingresso di Lettere con una serie di manifesti e di striscioni del genere VI FAREMO FARE LA FINE DI PIAZZALE LORETO, FASCISTI TUTTI APPESI A TESTA IN GIU’ e cose del genere. O fingevi di non vedere- ma non faceva parte della nostra indole- o reagivi… Ci spostiamo a Lettere e incrociamo anche militanti del Pci che non sono della facoltà, alcuni non sono neanche studenti. […] noi saremo stati una quarantina, loro forse sessanta, settanta ma non di più. Improvvisamente c’è lo scontro. Rapido e concitato. Noi saliamo le scalinate di Lettere, siamo quasi tutti a mani nude, e ci scontriamo con loro all’ingresso della facoltà e lungo le scale. Poi retrocediamo e ci fermiamo in fondo alle scale. Fra noi e i compagni si frappone un plotone di carabinieri. Noi gridiamo, inveiamo, insultiamo e i compagni fanno lo stesso al di là del cordone dei carabinieri. A quel punto avviene un fatto imprevisto. Iniziano a uscire dalla facoltà gli studenti che avevano seguito le lezioni. La gente comincia a premere per uscire e vedo, a pochi metri da me, dalla balaustra di marmo all’ingresso di lettere, cadere, a piombo, a corpo morto, senza un lamento, un ragazzo. Che era appunto Paolo Rossi. Lo sollevano subito alcuni studenti che cercano di soccorrerlo e lo portano via. Ora, tra la scazzottata e la caduta dal parapetto di Paolo Rossi è passato diverso tempo. Più di un’ora. Non so se, uscendo, la massa che premeva ha spinto e lui ha perso l’equilibrio ed è caduto. Oppure, come si disse allora aveva ricevuto dei colpi durante gli scontri precedenti e successivamente ebbe un malore o un capogiro. Non lo so. Quel che è certo è che nessuno di noi fascisti lo colpì o peggio, come si disse all’epoca, lo spinse di sotto. […] La sera stessa dell’episodio, ci scontriamo con gli attacchini del Pci che stanno affiggendo manifesti in cui dicono che abbiamo ucciso noi Paolo Rossi. […] Il giorno dopo evitiamo di farci vedere in zone a rischio. Ma la sera successiva ci sono altri scontri con i compagni. Incrociamo delle macchine con la figlia di Ingrao e altri assistenti universitari di sinistra e scoppia una rissa”. Anche il giorno della commemorazione di Paolo Rossi nella città universitaria i neofascisti si presentarono, secondo Merlino, presso l’uscita secondaria dell’università per provocare e insultare gli studenti di sinistra, e ne nasce una violenta colluttazione. Vedi p. 67-68.

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Bandiera rossa sul Quirinale

 In attesa dell’elezione del presidente della Repubblica rilancio un mio vecchio racconto pubblicato in “Non dimenticare la rabbia”, Agenzia X, settembre 2009

Bandiera rossa sul Quirinale

 

 

Non riusciamo a tenere la piazza!”

 

Non riusciamo a tenere la piazza!”

 

Cristo!”

 

Mandate subito il primo reparto mobile se no questi sfondano!”

 

Cazzo! Sbrigatevi!”

 

Il capitano Colonna inizia a sudare, gli succede sempre in queste situazioni, e si chiede perché lui, erede di un’antica e nobile famiglia romana, debba scendere così in basso e ritrovarsi faccia a faccia con un branco di comunisti.

 

È decisamente stanco di passare i suoi tanto attesi fine settimana a combatterli per finta, e a volte per davvero. Ha quarant’anni passati ormai, sposato da quindici, due bambini che non vede mai, da trentacinque anni studia scherma tradizionale, lotta greco-romana e pugilato. Non queste stronzate di arti orientali che tanto amano praticare i suoi ufficiali e appuntati, solo perché va di moda adesso. Si considera un uomo d’altri tempi, e così lo vedono i suoi ragazzi. A cosa servono le arti marziali orientali, poi, contro questa teppaglia?

 

Tuttavia, neanche la scherma può essere utile, gli obietta a volte qualcuno dei suoi, e di sicuro non la lotta greco-romana.

 

Il capitano Colonna spiega paziente che è una questione mentale, di vera arte del combattimento, che romani ed europei hanno insegnato, vincendo sul campo di battaglia, a tutte le genti del mondo. Essenziale è la mentalità del cavaliere, in qualunque situazione e contesto ci si trovi. Con quella si può guidare anche una carica di appuntati e giovani sottufficiali come i suoi, contro questi delinquenti rossi.

 

Ma visto gli ordini del ministero, tutto sembra inutile.

 

Contenere, è la parola d’ordine del generale. Contenere chi? Cosa? Come, poi?

 

Che cazzo significa contenere” si chiede il capitano Colonna. Si è mai vista una battaglia facile da vincere in cui ci si limita ad arginare il nemico? Il capitano Colonna proprio non capisce. Sarebbe ben più semplice caricare a fondo, definitivamente, gli autonomi, fino a ricacciarli fuori dal centro storico della città e rinchiuderli nei loro ghetti. Con lacrimogeni, blindati, corpo a corpo se necessario, affinché ci pensino non una ma ben due volte prima di tornare a devastare gli antichi palazzi della sua Roma.

 

Sono dieci anni che gli impongono questa inutile tattica del contenimento, senza poter infierire. Un decennio di insuccessi militari, pensa il capitano Colonna.

 

Quando l’avversario è a terra bisogna immobilizzarlo e renderlo innocuo, gli si accorda una sconfitta onorevole solamente se la merita.

 

Ma questi autonomi sono solo teppisti pieni di rabbia e odio che vogliono distruggere tutto, niente più. Non meritano nessun riguardo, vanno schiacciati come scarafaggi con tutta la forza a disposizione. Di questo il capitano Colonna è davvero convinto.

 

 

E pensare che avrebbe potuto scegliere una strada decisamente più semplice della carriera nell’Arma, una cosa che, a dire la verità, all’inizio neanche lo entusiasmava. Si sente un uomo di altri tempi, il capitano, fedele al papato prima che alla repubblica, così come lo è da sempre e per sempre lo sarà la sua famiglia. È un monarchico nell’anima, certamente, ma per lui il sovrano assoluto dovrebbe essere, ancora oggi, il papa. Non quegli usurpatori dei Savoia che hanno gettato fango sul palazzo che lui ora si trova, per ironia della sorte, a dover difendere a tutti i costi. Per non parlare del presidente di quella repubblica dei partiti, deboli e corrotti, che lo ha gettato d’improvviso sulla linea del fronte, quasi fosse un soldato qualsiasi. Una linea del fronte poco cavalleresca e molto, troppo, proletaria.

 

 

Ma la famiglia dei Colonna non è più quella consegnata alla storia dagli ultimi mille anni. L’unico modo per emergere con dignità come nuovo cavaliere era l’Arma dei carabinieri. Niente contabilità, nessuna politica da strapazzo. Nell’Arma avrebbe senz’altro trovato il modo di servire al meglio il suo sacro ideale.

 

 

I pensieri del capitano Colonna vengono interrotti dalle urla dei suoi ragazzi.

 

Capitano, il reparto mobile è stato bloccato all’angolo dei Fori. Dobbiamo aiutarli noi, a quanto pare”, grida all’improvviso il brigadiere Cerulli.

 

Aiutarli noi? Ma che cazzo dici, Cerulli! Lo vedi quante molotov stanno tirando questi stronzi? Fra poco sfondano e noi dovremo indietreggiare su, dritti per la salita verso il Quirinale. Capito? Lo sai che significa?”

 

Sì, certo, capitano” risponde Cerulli con l’aria poco convinta.

 

In realtà Cerulli, brigadiere della provincia di Latina, non sa affatto cosa significhi ritirarsi in salita, dietro un fitto lancio di molotov, sassi, bottiglie e quant’altro gli autonomi stiano tirando.

 

 

Eppure Cerulli si sente orgoglioso di essere finalmente al comando di una piazza nel centro di Roma. Be’, se non proprio al comando, aiuta chi comanda, questo sì. Ed è senz’altro un gran bel salto dalla sua piccola caserma di paese dove vive e ammuffisce da oltre dieci anni.

 

La sua carriera era iniziata da carabiniere semplice, uscito fresco fresco dall’anno di ferma militare, per arrivare all’assegnazione della caserma del suo paese. Una fortuna immensa, gli dicevano sempre i suoi genitori, vecchi contadini dell’Agro Pontino, e soprattutto glielo ripeteva la sua fidanzata: così si sarebbero finalmente sposati e avrebbero vissuto vicino alle loro rispettive famiglie. Lui avrebbe staccato a mezzogiorno per la pausa pranzo e avrebbe mangiato a casa, come si deve, senza schifezze da mensa.

 

Ma lui no, lui cercava l’avventura! – così gli gridava la sua fidanzata – e aveva cercato in tutti i modi di farsi assegnare presso la caserma storica di via in Selci della capitale.

 

E da un anno c’era riuscito. Agli ordini del famoso capitano Colonna.

 

 

Gli autonomi Cerulli li conosceva bene, e li odiava altrettanto.

 

A dire la verità, tutta la verità, Cerulli li aveva incrociati poche volte nella sua carriera. Ma la prima volta che ci si era scontrato non l’avrebbe mai dimenticata.

 

Erano almeno un centinaio, sbucati all’improvviso da non si sa dove. Erano venuti a contestare addirittura la presentazione di un libro del ministro. Una cosa per pochi, parlamentari, giornalisti e alcuni notabili. Meno di cento persone comodamente sedute presso un’antica sala del senato, champagne e ostriche, come nella migliore tradizione. Il compito di sorvegliare su questo piccolo gala era stato assegnato proprio al capitano Colonna, particolarmente amato nelle stanze del palazzo, un po’ per il suo altisonante cognome, un po’ per i suoi modi eleganti ma sempre risoluti.

 

E Cerulli quel giorno era lì, emozionato e sempre al telefono con la fidanzata, intento a raccontarle passo passo la festa quasi principesca… quando a un certo punto erano arrivati, come nei peggiori film di serie B all’italiana, quelli per la provincia ignorante che Cerulli tanto amava.

 

Un centinaio di autonomi, entrati grazie a finti pass governativi, tutti con le felpe scure, nere o blu qualcuna rossa, con il maledetto cappuccio che copriva la testa e parte del viso, e zaini carichi, pieni, stracolmi, non si sapeva bene di cosa…

 

 

Gli stessi autonomi che ora si trova di fronte.

 

Determinati, arrabbiati, sempre con quelle loro felpe che oramai aveva imparato a distinguere da quelle normali, indossate dagli altri ragazzi di sinistra non violenti.

 

Cazzo… ma quanti sono… ma che fanno?”

 

Lo spettacolo è davvero impressionante.

 

Un quadrato, composto da almeno un migliaio di autonomi, prende forma sotto gli occhi di Cerulli e Colonna.

 

Le prime file di questo enorme e spaventoso blocco hanno degli scudi di plexiglas alti due metri, e poi, sopra di loro, a coprire almeno tre cordoni di autonomi, altri scudi di plexiglas a formare un grande tetto trasparente, resistente e difficilmente penetrabile.

 

La stessa tecnica anche per le file laterali e quelle in chiusura.

 

Hanno tutti dei caschi integrali, indossano divise da football americano, parastinchi e paragomiti, guanti enormi che tengono ben fermi gli scudi, e gli stalin, i maledetti stalin…

 

Che poi non sono altro che manici di piccone a cui appendono strisce di stoffa rossa, per richiamare la bandiera.

 

 

E lanciano di tutto: sassi, bottiglie, enormi pezzi di fioriere, molotov, soprattutto molotov, prima alle gambe, poi sempre più in alto tanto che due dei suoi uomini vengono colpiti sul casco.

 

Gli autonomi, incredibile a dirsi, sono organizzati come una versione allucinata e postmoderna delle antiche legioni romane: la prima fila dei portatori di scudi, quando è troppo stanca di ricevere lacrimogeni sul plexiglas, si ritira e la fila immediatamente dietro prende il suo posto, continuando ad avanzare imperterrita, in blocco.

 

A un certo punto gli autonomi avanzano e formano un piccolo cerchio.

 

Cosa fanno?” chiede Cerulli ai suoi ragazzi.

 

In risposta, fuoco. Cazzo! Stanno bruciando il Tricolore! Stanno bruciando un’enorme bandiera italiana proprio qui di fronte al Quirinale!

 

Ma questi stronzi non hanno rispetto per nulla!” Cerulli non sa se essere incredulo o furioso.

 

Cosa gridano? Cosa gridano?”

 

Non capiamo signore, c’è troppo casino.”

 

 

Bruceremo… bruceremo… bruceremo il tricolor! Bruceremo, bruceremo, bruceremo brucerem il Quirinal…” salì come un boato immenso il grido di guerra degli autonomi.

 

Ma questi sono matti, pensa allibito il brigadiere Cerulli.

 

Questi vogliono attaccare il Quirinale.

 

Questi vogliono proprio attaccare il Quirinale!

 

Cerulli inizia a gridare a se stesso, ai suoi uomini, al cielo.

 

Un’azione inaudita, che nessuno si sarebbe mai aspettato.

 

Cerulli non era neanche mai entrato al Quirinale, a parte una volta con la sua fidanzata, ma ora sapeva che doveva difenderlo da questa feccia rossa, a tutti i costi. Tutti quegli ori e quei lampadari, tutta quella storia. Appena giunto in servizio a Roma lo stesso capitano Colonna gli aveva suggerito di farci un giro, “da turista” si era raccomandato. “Salire sul colle è un’esperienza unica” aveva declamato il capitano, gli occhi sognanti.

 

Cerulli l’aveva fatto, una domenica mattina di bellissimo sole, mano nella mano con la sua fidanzata, ed erano entrati nelle stanze segrete, o quasi, del Quirinale. Lampadari ottocenteschi, quadri della migliore scuola italiana, argenteria da collezione.

 

Tutto questo ora stava per essere distrutto dai vandali.

 

Non lo avrebbe permesso!

 

 

Ordinò ai suoi uomini di schierarsi in fila compatta.

 

Uomini… o meglio ragazzetti sbarbati, che ancora dovevano fare la prima carica della loro vita. Ma ti pare che il comando doveva mandare dei ventenni a difendere il Quirinale?

 

Li fece allineare a forza di urla. Una fila perfetta, nera coi bordi rossi. Ma era un’unica linea, non c’erano uomini neanche per improvvisare una seconda fila o almeno rinforzi ai lati, dove di solito questi stronzi di autonomi riuscivano spesso a intrufolarsi e sfondare.

 

Fece chiudere immediatamente i lati con le poche gazzelle e autoblindo rimaste sulla grande piazza di fronte al Quirinale. Le altre erano sparse per il centro a presidiare i ministeri e palazzo Chigi, anch’essi sotto attacco. Molte gazzelle, pantere e blindati erano già attaccati dal fuoco delle molotov, o comunque impossibilitati a muoversi in soccorso del palazzo presidenziale.

 

Uscì fuori dal grande quadrato che a fatica era riuscito a disporre; voleva ammirare il suo lavoro, trasmettere ai suoi uomini forza e sicurezza. Ma rimase subito deluso, e poi spaventato. La piccola colonna era davvero solo un punto nero nella grande piazza, ed era circondata sempre più dal fumo e dal fuoco, e dai pezzi dei grandi vasi spaccati e poi lanciati dagli autonomi.

 

Li stavano assediando.

 

Ma dov’erano finiti gli altri colleghi? E la celere dov’era? Quegli stronzi sono bravi solo quando sono tanti contro pochi. Mai che si sacrifichino in situazioni come questa…

 

Siamo rimasti soli!

 

Noi e gli autonomi.

 

Che dice il capitano Colonna?

 

Dov’è, il capitano Colonna?

 

 

Il capitano Colonna si guarda intorno, la piazza sembra deserta, per un attimo, un attimo soltanto. Poi d’improvviso eccoli schierati davanti a lui, in aperta sfida.

 

Disordinati, nel vestire e nello stare incordonati, ma con lo stesso feroce atteggiamento di sfida che avevano trent’anni fa e che diventò il loro segno distintivo. Non erano organizzati come i marxisti-leninisti, né come quelli di Lotta Continua e Potere Operaio, ma non si riusciva a cacciarli dalle piazze neanche con dieci cariche. Peggio dei selvaggi!

 

 

Io quasi quasi li faccio passare…

 

Ma perché debbo essere proprio io, ancora io, a dover difendere rischiando la vita questo cazzo di Quirinale?!

 

Ma che se ne vadano tutti all’inferno, pensa fra sé e sé il capitano.

 

Il capitano Colonna sa di essere stanco di queste cazzate, sono vent’anni che lo è, da quando era un semplice appuntato, nonostante la triplice raccomandazione, e non è riuscito a fare carriera. Ha sempre pensato che divenire un ufficiale dei carabinieri fosse meglio che niente in questa società sprezzante delle regole e dei valori. Ma evidentemente l’ha pensato solo lui, e pochi altri. Come quelli che lo hanno preceduto, il suo vecchio zio che per anni ha tentato di ristabilire l’ordine di un tempo. Ma colpi di stato falliti e colpi di stato fantasma non hanno cambiato nulla. E allora, se dev’essere inferno, inferno sia! Così gli altri si renderanno finalmente conto che parole come “tradizione” e “valori” avevano davvero un senso profondo per lui, quando le sfoderava nelle serate al circolo.

 

 

Intorno al capitano Colonna il caos adesso è informe. Mille e mille carabinieri fuggono atterriti: mai vista una cosa del genere, neanche di fronte ai nazisti!

 

Ci pensasse Cerulli a difendere questo colle in salita…

 

Cazzo… ma quanti sono?! Eccolo lì il secondo quadrato, come preannunciato dalle informative inutili dei Ros. Bravi a informare ma non a resistere, stavolta.

 

E perché mai dovrei farlo io? Basta così, stavolta me ne vado davvero.

 

Ci penserà semmai un brigadiere di provincia a tenere alto l’onore dell’Arma. Tanto meglio per lui, e forse per l’Arma stessa.

 

 

Forza ragazzi! Forza! Indietreggiate… su veloci, su verso il grande portone.

 

Una volta chiusi lì dentro non ci potrà succedere niente. Avanti! Anzi, indietro! Cazzo sono il vostro brigadiere, eseguite gli ordini! Subito!”

 

Brigadiere! Brigadiere!” urla il giovane appuntato Romelli.

 

Che vuoi, Romelli? Che novità ci sono?”

 

I Ros hanno lasciato l’edificio! I Ros hanno lasciato l’edificio!”

 

Ma quale edificio? Di che cazzo stai parlando, Romelli?”

 

Del palazzo… del Quirinale, signore. Lo hanno, ehm… abbandonato. Pare. Hanno scortato fuori il presidente e sua moglie. Me lo hanno appena comunicato dal comando…”

 

Ma come, hanno abbandonato l’edificio? Ma che cazzo dici? Mica è un edificio qualsiasi, che si può lasciare…”

 

E invece sono scappati, signore.”

 

E che ordini ci sono dal comando?”

 

Nessun ordine, signore, i Ros sono fuggiti. E basta.”

 

Ma come…” Cerulli non ha più voce, non ha più forze.

 

Ha capito bene, signore. Hanno abbandonato il palazzo. E, a quanto pare, pure noi.”

 

Dopo un silenzio che sembra interminabile, interrotto dal rumore di bottiglie e sassi che cadono a terra tutte insieme, il brigadiere guarda in faccia l’appuntato Romelli e tutta la sua prima fila di giovani carabinieri.

 

Che facciamo, brigadiere?” insiste Romelli.

 

Nulla.”

 

Come nulla?”

 

Continuiamo semplicemente a fare il nostro dovere di carabinieri.”

 

Cerulli si fa forza, grida: “Avanti ragazzi! Muovetevi! Disponetevi a testuggine. Subito!”. I suoi uomini lo fissano increduli, spaesati.

 

A testuggine, cazzo! Lo avrete fatto mille volte durante le esercitazioni. Lo sapevate che prima o poi si faceva sul serio! Questo è il momento, più che mai! Forza ragazzi!”

 

Mettetevi a testuggine, e che non sia mai che facciamo passare questo branco di autonomi!”

 

Per quanto violenti e organizzati non saranno mai disciplinati come noi… siamo l’Arma dei carabinieri!”

 

 

Gli autonomi avanzano da tutti i lati, salgono per la salita ma arrivano pure dalla discesa, da via del Quirinale, alle spalle di Cerulli e dei suoi uomini.

 

Un secondo quadrato.

 

Sono migliaia. Un gruppo ancora più impressionante e imponente del primo, quello che già aveva messo in fuga il primo reparto scelto dei carabinieri.

 

Alcuni gruppetti non incordonati avanzano di lato, su e giù, tirando bottiglie molotov.

 

Le prime file sono composte da una sorta di lanciatori medievali che tirano sassi, cocci, batterie e bottiglioni pieni di vernice. Ce ne sono almeno un centinaio con fionde di precisione. Tirano pallettoni di piombo di quelli da pesca e pile elettriche formato gigante.

 

Avanzano velocemente, lanciano a ripetizione e poi indietreggiano ancora più in fretta per rientrare nel quadrato, a proteggersi dietro gli scudi.

 

I carabinieri lanciano ormai solo lacrimogeni, indietreggiando, ma gli autonomi rispondono con gli estintori che vanificano l’uso dei gas urticanti.

 

Il secondo quadrato avanza compatto su via del Quirinale.

 

Da via Nazionale altre centinaia di autonomi procedono in ordine sparso, mentre dalla salita a gomito di via IV Novembre avanza, conquistando definitivamente la grande piazza, il primo quadrato organizzato.

 

Capitano Colonna! Capitano Colonna!” urla Cerulli alla radio.

 

Capitano, dove sta? Capitano, dove cazzo sta!” Cerulli ora è atterrito, impaurito, sfiduciato e imbestialito. Il tradimento gli stringe il cuore e una rabbia improvvisa, dolorosa e devastante, lo incalza, lo incita a correre su e giù, lo tiene in piedi.

 

Signore…” Romelli gli si avvicina esitante.

 

Si può sapere che cazzo vuoi adesso?!”

 

Non si arrabbi signore… non so come dirglielo…”

 

Dillo e basta, appuntato! Ti pare che abbiamo tempo da perdere?”

 

Il capitano è andato via” dice tutto d’un fiato Romelli.

 

Andato via? Andato dove? Che diavolo dici?”

 

È andato via, signore. Ha detto una cosa ed è andato via.”

 

Una cosa? Ma stai scherzando?”

 

No, signore.”

 

Era una domanda retorica, fesso. Se pensavo davvero che stavi scherzando ti avrei già cacciato io a calci in culo… altro che gli autonomi!”

 

Cerulli è affranto, ha quasi paura di chiedere. “Che cosa ti ha detto il nostro capitano Colonna allora?”

 

Ha detto che l’Arma ora è in mano ai suoi veri eroi, i brigadieri… e i marescialli… e gli appuntati.”

 

Ha detto così?”

 

Sì. E ha anche aggiunto che il tempo degli ufficiali di Roma è finito. Il palazzo spetta a noi difenderlo.”

 

Ah…”

 

 

Cosa facciamo, signore?” chiede indeciso Romelli.

 

Resistiamo, appuntato. Resistiamo. Il Quirinale è nostro e noi lo difenderemo. Forza ragazzi! Forza! Allineatevi! Su, davanti al portone!” grida ai suoi uomini.

 

Ma proprio in quel momento l’ennesima pioggia di molotov investe l’atrio antistante il portone. Dal primo e dal secondo quadrato i lanciatori attaccano contemporaneamente la retroguardia dei carabinieri, tagliandole la strada con il fuoco e impedendo la ritirata.

 

Lo scenario per Cerulli è ormai chiuso.

 

E lui lo sa bene.

 

 

Forza, ragazzi! Avanti! Dobbiamo aprirci un varco e lasciare questa trappola di piazza! Subito! Prima che ci accerchino definitivamente! Forza! Forse di lì potremo caricarli alle spalle e disperderli…” conclude con poca convinzione, stremato, senza quasi osare guardare i suoi ragazzi.

 

Signore!” di nuovo Romelli, agitatissimo.

 

Che c’è ancora…?”

 

Non di là, signore… non potremo mai passare fra il primo quadrato e la massa di autonomi appena arrivati da via Nazionale!”

 

Cosa proponi, Romelli? Che cosa possiamo fare?” grida per l’ultima volta Cerulli, brigadiere della provincia di Latina.

 

Le scale sotto la terrazza, signore. Quelle di fronte alle scuderie. Le scale segrete, signore. Possiamo fuggire di lì.”

 

Fuggire?” Cerulli è incredulo.

 

Romelli guarda il suo brigadiere, il suo capo, il più alto in grado rimasto a dirigere la piazza.

 

Sì, signore, siamo rimasti in pochi, possiamo solo difendere la nostra vita… se tutti se ne sono andati, che cazzo restiamo a fare, signore? Non siamo neanche di Roma…”

 

Cerulli ormai è inebetito.

 

Una molotov esplode a due passi da lui e la fiammata quasi lo investe di fianco.

 

Andiamo via, signore, subito! Prima che sia troppo tardi. Forza!” grida Romelli quasi afferrandolo per la divisa, sporca di fumo.

 

La piazza d’improvviso si svuota degli ultimi carabinieri.

 

I primi scalatori arrivano subito dopo le molotov.

 

Protetti fino all’ultimo dai lanciatori, avanzano ai lati, si nascondono fra i grandi pini di Roma che circondano il palazzo e rendono meno solo il Colle. Come moderni ragazzi di Sherwood salgono attraverso le infinite tettoie. Si sono portati corde da trekking e da scalata, guidati da esperti scalatori e arrampicatori urbani. Sono dieci anni che organizzano le azioni creative sui tetti della città, liquidate dai vecchi militanti come azioni da fricchettoni perditempo e ora rilevatesi essenziali per la guerriglia urbana.

 

Neanche tentano di aprire il portone, danneggiato ma non abbattuto dal fuoco. Nemmeno provano a sfondare le finestre, le grate di ferro e acciaio le proteggono troppo bene.

 

Salgono diretti verso il tetto, anzi i mille tetti del Quirinale. Uno dopo l’altro si danno la mano, si arrampicano in verticale, legati stretti con le corde.

 

Fino a che il più piccolo e giovane degli scalatori, un ragazzetto della nuova periferia, riesce a salire sul tetto del pennone.

 

A un certo punto era lì. Rossa, ben spiegata al vento del nord.

 

 

 

 

 

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“Scontri di piazza” al Circolo Gianni Bosio

Circolo Gianni Bosio
via Sant’Ambrogio, 4 – II piano

sabato 13 aprile h. 19.00

Presentazione di SCONTRI DI PIAZZA. AUTONOMI SENZA AUTONOMIA, romanzo

saranno presenti l’autore, Marco Capoccetti, e l’editore Lorusso

Marco Capoccetti Boccia, già autore di Non dimenticare la rabbia – Storie di stadio strada piazza, torna a raccontare le storie scomode e politicamente scorrette di chi porta in piazza le proprie lotte con rabbia e determinazione. 11 racconti di scontri di piazza, contrassegnati da data e luogo, in un periodo storico poco conosciuto, quegli anni ’90 vissuti come un deserto freddo da attraversare dopo la fine delle organizzazioni autonome, in una Roma in trasformazione, dove tra centri sociali istituzionalizzati e periferie disumane resistono pochi, disorganizzati e forse velleitari, che continuano a chiamarsi autonomi.

Mai pentiti, mai arresi.

“Che famo? Che famo? Forza, avanziamo, dai!”
La paura si mischia all’adrenalina, le gambre tremano, ma le scarpe da ginnastica sull’asfalto lucido non mi fanno scivolare.
“Avanti compagni!”

Marco Capoccetti Boccia è nato a Roma nel 1973. Storico, narratore e militante autonomo libertario, ha pubblicato la raccolta di poesie Territori occidentali (Edizioni Oppure, 1999), la raccolta di racconti Non dimenticare la rabbia (Agenzia X edizioni, 2009) e il saggio storico Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta (Castelvecchi, 2011).

a seguire aperitivo popolare a prezzi popolari

per informazioni:
3931611356
segreteria@circologiannibosio.it
ufficio stampa: susannacerboni@libero.it

 

 

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Recensione del disco “Every song” by Alice Claire Ranieri Quartet

Varrebbe la pena di acquistarlo solo per “Bewitched, Bothered and Bewildered” cantata meravigliosamente da Alice Claire Ranieri. Un pezzo che ti riconcilia con una malinconia ormai scomparsa, persa negli anni migliori del jazz. Una malinconia dolce e struggente, che ti afferra la gola, ti fa venire voglia di bere il miglior whiskey irlandese, che ti lascia silenzioso e contemplativo perfino davanti al più brutto tramonto di questa metropoli decaduta.

Ma…ma ci sono anche altri pezzi strepitosi, che vale la pena di ascoltare e assaggiare, cantati da Alice e accompagnati magicamente da Andrea Frascaroli al piano, Stefano Cesare al contrabbasso e Gianni Di Renzo alla batteria. Con Piero Masciarelli alla chitarra nel pezzo “The good life”.

Non sono un critico musicale ma un semplice amante del jazz, quello vero e antico, che sa rinascere come una Fenice in questi tempi oscuri di musicaccia in cui viviamo. Per questo non posso che consigliarvi di ascoltare “King of Harlem”, composta da Frascaroli sulla base di una poesia del grande poeta scomparso Federico Garcia Lorca.                                     Andrea Frascaroli fa di “King of Harlem” un capolavoro poché non ha paura di misurarsi con il poeta ma lo omaggia con sincerità, attraverso la passione, quella vera.

Un disco bellissimo, strepitoso, uscito ormai tre anni fa per i tipi della Philology Jazz.Un disco che merita una nuova e splendente vita, perciò vi invito caldamente a comprarlo o comunque ad ascoltarlo.
Ma ancor di più vi invito a contattare il gruppo per vederli e farli suonare dal vivo: in un centro sociale o in un jazz club o anche nell’ultimo baretto di periferia. Poiché per loro che “credono nella loro crescita collettiva, amano trascorrere il tempo insieme e perdersi nella gioia di suonare il jazz” non vi sono confini che tengono.

Grazie Alice Claire Ranieri Quartet per questo meraviglioso disco…

Per leggere altre recensioni:                                                                http://philologyjazz.wordpress.com/2010/04/08/alice-claire-ranieri-quartet-every-song/

http://italia.allaboutjazz.com/php/article.php?id=5177

Per acquistare il cd scrivete a:                                                http://philologyjazz.wordpress.com/about/

Per seguire il gruppo su My Space:                                                                 http://www.myspace.com/aliceclaireranieriquartet

 

 

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“Scontri di piazza” al Trullo!

copertina

4 Aprile 2013:

Serata in ricordo di Nando Biccheri, compagno storico del Trullo, scomparso tre anni fa, in occasione del 26° anno di occupazione del Cso Ricomincio dal Faro

ore 18 presentazione del libro:

“Scontri di piazza. Autonomi senza Autonomia” di Marco Capoccetti Boccia, Lorusso Editore

a seguire brindisi per il 26° compleanno del Cso Ricomincio dal Faro

ore 21 Reading fuori dalle righe dal libro “Scontri di piazza. Autonomi senza Autonomia”        a cura della compagnia teatrale indipendente “Attrice Contro”                                                 con Antonio Carboni alla chitarra e Francesco Marchese supporto tecnico

Un reading fuori dalle righe, che infrange tutte le zone rosse.
I soliti Black bloc, in piazza con il volto coperto da una sciarpa nera e un casco sulla testa, violenti e devastatori.
Prima dei soliti Black Bloc, c’erano i soliti Autonomi.
I Soliti : aggettivo dispregiativo con cui media, partiti, sindacati e veline della questura, hanno sempre demonizzato chi partecipa agli scontri nelle piazze.
Alessandra Magrini, in scena Attrice Contro, da voce ai volti di un movimento di cui i media parlano molto, spesso senza reali informazioni.
In scena estratti di vissuti e il gergo di una città in trasformazione, tra la fine delle organizzazioni autonome, centri sociali istituzionalizzati e periferie disumane.
Chi sono quegli autonomi che non scappano, ma si difendono dagli attacchi della polizia?
Quali sono le loro motivazioni?
Che vuol dire essere Autonomi negli anni ’90?
Indaga le origini del dissenso, le motivazioni della rabbia espressa nelle strade, l’insoddisfazione sociale nei confronti di un sistema autoritario e classista.
Tratto da “Scontri di Piazza. Autonomi senza Autonomia” , l’ultimo libro di Marco Capoccetti Boccia, edito da Lorusso Editore lo spettacolo racconta le storie scomode e politicamente scorrette di chi lotta con determinazione.
Resistono in pochi, disorganizzati e forse velleitari, che continuano a chiamarsi autonomi.
Mai pentiti, mai arresi.

 

Da “Scontri di piazza”: a Nando, il Presidente !

Nando incede con il suo passo incerto. Mi sembra sempre più vecchio che mai il Presidente da quando lo conobbi in quel bellissimo pomeriggio d’inverno nella sua casa di viale Marconi.

Fu un onore. Anche se Nando non amava l’uso di questa parola, e in fondo e in fondo neanche io, ma a quei tempi l’influenza della Curva Sud era ancora forte in me e mettici pure tutti i discorsi sull’onore e la vendetta che me ripeteva Antonello. Insomma sì, alla fine fu un onore.

 

I compagni dell’Antico Molo mi parlavano di Nando da mesi, me ne parlavano come di un mito, un compagno intelligente e saggio, risoluto, che negli anni belli dello scontro autonomo de classe aveva diretto alla grande intere compagini di compagni senza mai perdere lucidità.

Uno che qui nel quartiere e in tutta Roma era rispettato come pochi.

Mi ripetevano che presto o tardi me lo avrebbero fatto conoscere e che lui m’avrebbe raccontato cose che loro stessi avevano saputo dai suoi racconti. Anche se mi dicevano: non ti illudere. Nando non è coatto come noi. Lui è il Presidente, c’ha un altro modo di vedere la vita e la politica.

E così fu.

Quell’incontro fu bellissimo e semplice, Nando fu gentile e alla mano, pur essendo un pezzo di storia del movimento romano di fronte a un ragazzino esaltato e con brufoli e occhialoni come il sottoscritto. Fin dal primo incontro ti sapeva mettere a tuo agio e ti trattava con lo stesso rispetto e affetto che tu portavi a lui. Ma se dicevi una stronzata ti fulminava con una battuta e ti spiegava, con il raro dono della sintesi che lui come pochi aveva, perché e dove avevi sbagliato.

Poi chissà le fregnacce che gli aveva raccontato Antonello su di me in quei mesi che precedettero il nostro incontro. Infatti mi mise in imbarazzo come solo lui sapeva fare.

Ma fu un pomeriggio bellissimo, che ricordo ancora oggi come fosse ieri.

Imparai subito da Nando. E l’ho fatto sempre.

Perché da Nando c’era solo che da imparare.

E basta.

 

E anche oggi Nando è qui.

Per darci forza e coraggio. Per mettere la sua lucida esperienza al servizio di tutte e tutti noi.

Perché è arrabbiato, ovviamente.

Non gli sembrerà vero di vedere una cosa del genere, lui che esattamente vent’anni fa i fascisti li aveva cacciati dalla borgata.

Lui che c’era quando i compagni chiusero alla grande la storica sezione del Msi, una delle tante di cui fino alla metà degli anni ’70 i quartieri proletari e popolari erano pieni, fino a che l’antifascismo militante non mise fine alla tolleranza dell’antifascismo istituzionale.

Il mitico e vecchio Comitato Proletario di via Monte delle Capre.

Di cui tanto ci ha parlato. Fu quello che insieme ad altre realtà della sinistra rivoluzionaria di allora chiuse i giochi coi fascisti in borgata.

Ora, si son riaperti.

E non solo qui ma in tutta la città.

In tutta Italia.

E in un modo impensabile vent’anni fa. Son andati al governo democraticamente eletti.

Assurdo per Nando.

Per i compagni della sua generazione e per quelle immediatamente successive.

Ma forse un po’ meno assurdo per la nostra generazione di compagni, che i fascisti li abbiam visti crescere e moltiplicarsi e che oggi ce li ritroviamo addirittura al governo insieme a leghisti, berlusconiani e un pezzo di democristiani della diaspora.

Una cosa da romanzo di fantapolitica, dicono alcuni.

Ma ora è il nostro terribile presente.

Dove fra l’altro, tutti i gruppi e gruppuscoli alla destra, o alla sinistra (dipende sempre dai punti di vista) del MSI, si muovono con una incredibile agibilità politica concessagli dal governo e da un pezzo di opposizione di sinistra sempre più rifardita.

 

Ma Nando è qui, a darci man forte. A parlare con quelli che ai suoi tempi si chiamavano i proletari del quartieri e che noi, in questo cazzo di postfordismo di merda, non sappiamo più come chiamare.

Noi compagni vetero continuiamo a chiamarli così. Li nominiamo così anche sui nostri volantini e sui nostri manifesti.

Usiamo ancora mettere la falce e il martello, addirittura, sui nostri manifesti e volantini. Ma siamo fra i pochi compagni del movimento a farlo. E sappiamo che molti, i postfordisti, si prendono gioco di noi, alle nostre spalle. Perché i tempi son cambiati, non è più tempo di fordismo.

E bisogna adattarsi ai tempi che cambiano.

Come se Roma, e noi di conseguenza, fosse mai stata una città fordista.

A cagare! Intellettuali di sinistra di mmerda e compagni neoriformisti.

Noi, ancora parliamo di rivoluzione.

Magari a bassa voce….

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Audio della Trasmissione a Radio Onda Rossa per la presentazione del Reading teatrale “Scontri di piazza”

Martedi 5 marzo 2013 ore 15 a Radio Onda Rossa

Attrice Contro legge “Scontri di piazza”:

 

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Reading teatrale tratto da “Scontri di piazza”: Attrice Contro in una serata benefit per la palestra popolare autogestita “Dario Simonetti”

Attrice Contro

Dopo l’anteprima di novembre presentata alla rassegna su Gian Maria Volontè debutta a Roma presso il centro sociale ex Snia il nuovo lavoro della Compagnia Teatrale Indipendente AttriceContro che ad Aprile arriverà anche al teatro Tor di Nona.
Un reading fuori dalle righe, che infrange tutte le zone rosse.
I soliti Black bloc, in piazza con il volto coperto da una sciarpa nera e un casco sulla testa, violenti e devastatori.
Prima dei soliti Black Bloc, c’erano i soliti Autonomi.
I Soliti : aggettivo dispregiativo con cui media, partiti, sindacati e veline della questura, hanno sempre demonizzato chi partecipa agli scontri nelle piazze.
Alessandra Magrini, in scena Attrice Contro, da voce ai volti di un movimento di cui i media parlano molto, spesso senza reali informazioni.
In scena estratti di vissuti e il gergo di una città in trasformazione, tra la fine delle organizzazioni autonome, centri sociali istituzionalizzati e periferie disumane.
Chi sono quegli autonomi che non scappano, ma si difendono dagli attacchi della polizia?
Quali sono le loro motivazioni?
Che vuol dire essere Autonomi negli anni ’90?
Indaga le origini del dissenso, le motivazioni della rabbia espressa nelle strade, l’insoddisfazione sociale nei confronti di un sistema autoritario e classista.

Tratto da “Scontri di Piazza. Autonomi senza Autonomia” ,  l’ultimo libro di Marco Capoccetti Boccia, edito da Lorusso Editore lo spettacolo racconta le storie scomode e politicamente scorrette di chi lotta con determinazione.
Resistono in pochi, disorganizzati e forse velleitari, che continuano a chiamarsi autonomi.
Mai pentiti, mai arresi.

Con Antonio Carboni alla chitarra e Francesco Marchese supporto tecnico.

Serata serata benefit per la palestra popolare autogestita                    “Dario Simonetti”.

Ingresso a sottoscrizione.

Ore 20 cena sociale

ore 21.30 Spettacolo Teatrale

“Col cavolo che passi a stronzo!
Mi piazzo davanti al cancello. Da qui nun se passa.
“Alemanno, c’hai presente Stalingrado?Ecco questo è er Trullo. Uguale”

Da scontri di piazza, autonomi senza autonomia

Scontri di Piazza – 09 Marzo – ExSnia

http://www.facebook.com/events/424467574308780/

http://www.exsnia.it/iniziative/2013/attricecontro-scontri-di-piazza-autonomi-senza-autonomia/

 

 

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25 Febbraio 1980: i Funerali di Valerio Verbano

 

 

Lunedì 25 febbraio, giorno in cui Valerio avrebbe compiuto 19 anni, si svolgono invece i suoi funerali.

Questi si tengono presso il cimitero monumentale del Verano a San Lorenzo. La polizia vieta qualsiasi manifestazione. Ai funerali però partecipano migliaia di persone, secondo alcune stime, circa diecimila1.

Migliaia e migliaia di compagni e compagne occupano l’intera piazza. Questo fatto viene preso a pretesto dalla polizia per caricare duramente i partecipanti e le partecipanti al funerale. Gli scontri sono durissimi: la polizia carica sia nella piazza antistante il cimitero che nelle strade limitrofe, e spara anche, appostandosi dietro le finestre del vicino commissariato di via Tiburtina2.

Vedendo in quella folla che andava a dare l’ultimo saluto a Valerio, niente altro che una ‘manifestazione non autorizzata’, la polizia ha mostrato ancora una volta il suo volto impietoso.

Il giornale “Lotta Continua” del 27 febbraio dedica largo spazio all’aggressione poliziesca durante i funerali di Valerio. In un lungo articolo ci racconta di cariche indiscriminate, di fumogeni fin dentro il cimitero, di ben cinquantasette fermi e tre arresti, e dell’intero quartiere di San Lorenzo assediato fino a tarda sera.

“Valerio Verbano, giovane compagno: anche i suoi funerali hanno visto la vigliacca vendetta dello Stato. Quando anche un funerale diventa un’occasione di vendetta per la polizia.

Già dalle 14.30 gruppi di compagni si recano alla spicciolata davanti all’entrata dell’obitorio, in piazzale del Verano. Uno striscione sul cancello: ‘Valerio è vivo’, mazzi di garofani rossi raccolti nelle vicinanze. Due ali mute di giovani attendono in fila di dare l’ultimo saluto.

‘Stai buono…’

Si fischia l’Internazionale, la bara passa tra due ali di pugni alzati, di fiori che volano, di bandiere rosse. Un urlo da dietro: ‘Stracciamogli pure a loro le famiglie!’. E’ un grido che nessuno raccoglie, il padre di Valerio si gira e rivolto verso il punto da dove è giunta la voce dice: ‘Stai buono!’. Non è stizzito, arrabbiato, il padre di Valerio invita alla calma, è un invito paternalistico. Si arriva sempre con il senso d’oppressione davanti all’entrata del Verano: la bara, portata a spalla dai compagni del quartiere viene posta dentro il furgone, i genitori prendono posto in una macchina subito dietro. Molti compagni entrano dentro il cimitero, corrono dietro al furgone, mentre gli amici di Valerio invitano la gente ad andare via: ‘Fino qui – dicono – fino qui compagni! Ora il padre e la madre vogliono stare da soli’.

Si esce fuori, molti iniziano ad andarsene, altri si fermano a parlare in capannelli. Poi improvviso, parte lo slogan: ‘Valerio è vivo e lotta insieme a noi, le nostre ideenon moriranno mai!’, si forma la testa di un improvvisato corteo. Ci si dirige verso San Lorenzo, non si fanno neanche 50 metri che arrivano due blindati. I compagni alle prime file alzano le braccia gridano: ‘Fermi! Fermi!’. In risposta partono a raffica le prime salve di candelotti.

Asserragliati dentro il cimitero, tra il fumo dei lacrimogeni

‘Germania in autunno’: forse qualcuno l’avrà visto quel film. E ricorda le facce coperte ed i pugni chiusi mentre Baader, Raspe e la Esslin se ne vanno già nelle rispettive bare. E ricorda la polizia con i cavalli ad assediare i funerali di tre ‘morti di nessuno’ salutati da centinaia di giovani oramai senza nome. I fazzoletti sul volto fino agli occhi, gli occhi lucidi e le lacrime traditrici che si scorgono lo stesso. Le parole. Le parole che non escono per il magone e all’improvviso diventano grida e forse, prima ancora alludono a quel proprio essere ormai senza nome che giunge ad una ricerca di autoaffermazione. Chiusi, accerchiati, costretti. Con gli occhi che fissano la bara che se ne va. Senza non poter vedere blindati e cellulari e le spalle voltate a quel nugolo bianco di tombe recintate.

Quando la bara di Valerio è appena scomparsa dallo sguardo, le parole sono subito diventate slogan. ‘Valerio è vivo e lotta insieme a noi…’ Per dar forza ai vivi nel garantire la continuità del percorso di una lotta…’

Così ricorda il giorno del funerale Duka, allora giovane militante autonomo del quartiere Africano

“I funerali che erano il giorno del suo compleanno. Come entra…..come entra la bara, poi riescono i compagni che hanno portato la bara, perche’ il grosso stavamo fuori…non e’ che siamo andati a segui’ pure noi dove stava la famiglia….quelli più vicini…..proprio stretti che i genitori conoscevano…vabbe’ so’ entrati e i compagni hanno portato la bara, qualcuno pure che deve fa’ sempre il curioso, ma il grosso comunque….bisogna pure capi’ certi momenti, di non esse’ troppo invadenti…il problema e’ che come so’ riusciti i compagni che erano entrati e avevano portato la bara, le guardie ci hanno caricato. C’ hanno caricato, i compagni non avevano materiale per scontrarsi, ma nemmeno come autodifesa…però dico, non l’avevano…non c’erano manco i serci, non c’era nulla….loro hanno…Sì. La polizia carica a freddo e più…infamata…e’ che manco i poliziotti de servizio, quelli addetti che erano pagati in quel momento per caricarci, ma quelli che si potevano fa li cazzi loro, del commissariato di San Lorenzo, ci son proprio le foto su “I Volsci”, non e’ una leggenda…. c’hanno sparato, c’e’ la foto, dal commissariato, con la mano così…si vede pure la faccia, non solo la mano col pezzo. Comunque la mano col pezzo, si vede benissimo, e quello al palazzo del commissariato San Lorenzo, lo conoscono tutti, perciò, non e’ che me ‘sto a inventa’ qui le cazzate….c’hanno tirato”3

1 Cfr “Lotta continua”, 27/02/1980; “I Volsci”, 10/03/1980; intervista a Marco L. Roma 05/12/2008.

2 Vedi fotografie pubblicate su “Lotta continua” del 27/02/1980 p. 2.

3Intervista a il Duka, Roma, 04/06/2010.

tratto dal libro “Valerio Verbano. Una ferita ancora aperta” di Marco Capoccetti Boccia, Castelvecchi Editore, Roma, 2011.

 

http://www.pugliantagonista.it/archivio/foto_arch/valerio_bara_1.JPG

http://www.pugliantagonista.it/archivio/foto_arch/valerio_san_lorenzo.JPG

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