1979

1979

 

Il pallone era finito fra le sterpaglie e tutti gridavano a Roberto che stavolta toccava a lui andarlo a prendere. Sputando per terra e asciugandosi il sudore che gli fradiciava la faccia con la maglietta ormai sporca, Roberto guardava le enormi canne davanti a sé: ne aveva ancora paura. Da quella volta, quando era proprio piccolo, ma davvero piccolo eh, quando una specie di vipera lo aveva morso alla gamba e lo aveva fatto piangere e gridare, senza che nessuno lo trovasse per ore, sperso fra le canne, altissime. Adesso il mare di canne altissime era davanti a lui e il pallone si era tuffato là in mezzo, chissà dove. Roberto iniziò a battere i piedi e a urlare per farsi coraggio. Gli altri intanto gli gridavano dietro che era impossibile che anche un fifone come lui ci mettesse tanto tempo a recuperare il pallone. Se continuava così non lo avrebbero fatto più giocare. A questa lontana minaccia reagì prendendo un bastone con cui iniziò a rompere le canne.

Di fronte a lui, finalmente, il pallone.

 

“Sono troppo bravi nel tenere la palla al piede e nei lanci lunghi. E sono velocissimi negli scatti. Avete visto quando scattano?! Partono almeno in cinque! Cazzo!”, diceva Manrico sputando per terra e asciugandosi il mocciolo dal naso con la maglietta nuova.

“Se continua così ci massacrano. Minimo ne prendiamo altri tre”. Disse Roberto

“Lo sappiamo, Roberto! Lo sappiamo bene! È inutile che continui ad appallarci con questa storia!”, gli ribatté duro Paolo Croni.

“Proponi qualcosa invece di portare sfiga, cazzo!”, continuò duro Paolo, sputando per terra.

Tutti fissarono Roberto.

“Hai in mente qualcosa?”, disse allora Capitan Severino, rompendo il muro di silenzio che si era creato.

“Dobbiamo sorprenderli”, iniziò allora Roberto. “E l’unico modo di farlo è quello di giocare sul loro stesso terreno, aumentando al massimo la loro stessa tecnica di gioco”.

“E cioè, che vuoi di’?”, disse Paolo Croni mentre tutti lo fissavano ammutoliti.

“Dobbiamo giocare tutto di prima, scattando in linea. Mantenendo però sempre due uomini dietro e indicandoci a vicenda due di noi pronti a scattare a rete”, asserì Roberto con molta convinzione e tranquillità.

“Ma tu sei matto! Ti sei visto troppe partite di calcio inglese (‘sta settimana) su Teleroma 56!”, gli disse Paolo Croni ridendogli in faccia.

Tutti sputarono a terra e rimasero in silenzio fino a quando il fischio di Pinuccio, l’arbitro, non li richiamò al centro del campo.

 

La voce si era sparsa velocissima nel quartiere.

Fra i ragazzini, a scuola, non si faceva che parlare di questo.

Alcuni avevano addirittura telefonato a casa, chiedendo il permesso alla maestra, per dire alle mamme di stirargli la maglietta della Magica. Tutti avrebbero indossato quella maglietta per la partita del pomeriggio, con il probabile risultato che in campo non ci si sarebbe capito nulla.

L’annunciato arrivo dei talent scout aveva gettato nel panico e nella fibrillazione tutti i ragazzini del quartiere. E proprio nel giorno del derby!

 

Bandiere della Magica erano state appese agli alberi e ai pali che assediavano il campetto. Il campetto era infine pieno di gente, tanti ragazzini in campo con magliette simili se non identiche, dagli spalti genitori e nonni e amici incitavano i ragazzini a dare il meglio di sé mentre Pinuccio, l’arbitro, cercava di richiamare tutti all’ordine per poter finalmente cominciare questa benedetta partita. Tanto caos, gioia infantile e sogni di ricchezza, fama.

Pinuccio insisteva per iniziare, cercava di far uscire genitori e fratelli dal campo, voleva tornare a casa in tempo per ascoltare alla radio la partita, quella vera, ma faticava a respingere le richieste e gli insulti di chi voleva mettersi o far mettere in bella mostra tanti sogni di gloria. No, fino a quando non fossero arrivati i due signori della Roma la partita non sarebbe cominciata.

 

Erano tutti lì ad aspettare l’arrivo dei due osservatori, quando invece giunse la notizia. Dalle piccole tribune di legno ripulite per la grande occasione, i genitori iniziarono a gridare ai propri figli di tornare subito a casa. Subito.

 

Il campo, all’ombra del grande stadio, era infine vuoto. Non era niente di più che un campetto di terra, con quattro panche sgangherate che fungevano da tribuna. Tre pali mezzi storti e mezzi arrugginiti, senza alcuna rete, fungevano da porte. Tutt’intorno sterpaglie, una mezza specie di fossato, un mare di canne e un sentiero in salita che conduceva al quartiere, ora stranamente silenzioso.

 

[Il 28 ottobre 1979, durante il derby Roma-Lazio, un razzo antigrandine raggiunge Vincenzo Paparelli, 33 anni, uccidendolo.]

 

Pubblicato sul numero 12 della Rivista Laspro

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