A Carla Verbano

La fine non è stata affatto folgorante.

Proprio come tu temevi, Carla.

La sera del 5 giugno Carla Verbano se n’è andata in silenzio, senza disturbare nessuna e nessuno.

Ha aspettato che chi era accanto al suo letto uscisse a dieci metri dalla sua stanza per bere un caffè per poi andarsene in silenzio, senza far rumore, senza chiedere più nulla.

Poiché l’unica cosa che ha sempre chiesto, a volte sommessamente, a volte a gran voce, le è sempre stata negata.

Carla ci ha lasciato dopo aver lottato con tutta sé stessa contro un male che la tormentava da anni, un male che l’ha colpita più volte e che lei più volte ha sconfitto. Alla fine non ce l’ha più fatta e se n’è andata. In silenzio, dolcissima, senza disturbare nessuna e nessuno.

Carla non è stata solo la madre di un compagno assassinato, Valerio Verbano, ma è stata l’esempio di una donna e di una madre che fino all’ultimo ha lottato per avere verità e giustizia sull’omicidio del figlio. Carla è stata anche un’amica, una persona centrale per me e per tanti e tante compagni e compagne che non hanno conosciuto Valerio ma che nel suo nome hanno iniziato a fare politica, a lottare, a praticare l’antifascismo.

Carla, soprattutto in questi ultimi anni, è stata la mamma e la nonna di tutte e tutti noi.

Esortandoci a organizzare sempre più cose nel nome di Valerio e dell’antifascismo, partecipando lei stessa alle giornate di sport e antifascismo della palestra popolare intitolata a sua figlio, presentando in giro per Roma ma anche in altre città d’Italia il suo bellissimo libro Sia folgorante la fine raccontando ogni volta la stessa storia, con un coraggio sempre rinnovato, con una lucidità impressionante, con una determinazione unica nel dire, alla sua età, che i fascisti devono essere fermati, sempre e comunque.

Così come in quel pomeriggio, quando Casa Pound occupò provocatoriamente una scuola abbandonata a piazza Capri, proprio a due passi da casa tua. Da tutta Roma accorremmo per cacciarli di lì, nonostante decine di poliziotti e carabinieri li difendessero con la loro solita solerzia.

Ma nulla fu importante come il vedere te, una piccola e anziana donna, scendere in piazza, determinata ed elegante come sempre, nel dire: andatevene di qui, vicino a casa mia, alla casa dove avete ucciso mio figlio Valerio, non ci dovete stare.

Eri una roccia, Carla.

Te lo dicevo sempre, te lo dicevamo tutti e tutte.

Ma ultimamente, quando te lo ripetevo mi sgridavi e dicevi “basta basta, a forza di dirmelo mi sto sgretolando come una roccia…”

E invece no, sei stata forte e lucida fino alla fine, ci hai lasciato parole e sorrisi straordinari.

Davvero fuori dall’ordinario.

Così voglio ricordarti, con queste poche e sicuramente non all’altezza parole di saluto.

Voglio ricordare il suo sorriso, le sue sgridate, la sua forza, le sue contraddizioni.

Tutto ciò che ti rendeva umana, forte, coraggiosa.

Soprattutto le cose che non condividevo, soprattutto il rispetto per il dolore, che ho imparato da te.

Adesso è il momento del dolore, della tristezza.

Poi verrà il momento del vuoto.

Perché Carla lascia un vuoto enorme che mi mette paura, un vuoto che in nessun modo sarà possibile riempire.

Ma c’è già, in me, anche il momento della rabbia.

La rabbia contro chi in questo anno e mezzo le ha promesso che avrebbe trovato gli assassini di Valerio, che stava facendo l’impossibile, per rimediare agli errori del passato…

La rabbia contro chi l’ha illusa. La Procura della Repubblica di Roma, i Ros, molti politici.

L’ultimo saluto si è tenuto giovedi 7 giugno, così come ha voluto Carla, riunendoci in tanti e tante alla Palestra Popolare Valerio Verbano, nel quartiere del Tufello.

Nessun funerale, così come lei aveva espressamente richiesto.

Nessuna retorica altisonante. Solo tanti compagni e compagne affranti\e ma ancora uniti\e.

Ma uno strappo alla regola lo abbiamo fatto: in centinaia abbiamo manifestato, con striscioni e bandiere rosse, per le strade del quartiere accompagnando la bara dalla Palestra alla lapide dedicata a Valerio in via Monte Bianco, sotto casa di Carla.

Carla ultimamente diceva che una parte di lei se n’era già andata quel lontano 22 febbraio 1980, quando tre fascisti entrarono a casa sua e le ammazzarono suo figlio Valerio, mentre lei era legata, insieme al suo amato marito, Sardo Verbano, nella stanza attigua di quell’appartamento, che a Roma tutti i compagni e tutte le compagne conoscono, anche per averne visto solo le finestre, da quella strada, Via Monte Bianco.

Eppure Carla lo diceva sempre. Voglio sapere, voglio sapere chi e perché ha ucciso mio figlio.

Fino all’ultimo ha lottato per questo. Per 32 anni, fino ad arrivare alla fine, a 88 anni, sempre lucida e forte.

Le parole di Sardo Verbano, pronunciate poco dopo l’assassinio di Valerio, oggi risuonano più che mai vive:

Avevo un figlio, Valerio, che riempiva la nostra vita, e me lo hanno ammazzato. È stato proprio qui in casa. È caduto sul divano in quell’angolo, aveva la testa dove adesso c’è quel gattino di pezza. Sono stati i fascisti. Forse per vendetta, perché Valerio faceva parte di Autonomia. O forse per paura: Valerio era un loro nemico giurato, stava raccogliendo un dossier sui Nar, sui fascisti del quartiere. Chissà… Ma da quel giorno viviamo con uno scopo: scoprire la verità su nostro figlio, dare un nome ai tre assassini che ce lo hanno ucciso davanti agli occhi. Se la sua morte rimanesse un mistero, mio figlio verrebbe seppellito per la seconda volta.

Quanto ci vorrà ? Non lo so. Ma noi aspettiamo: siamo gente forte, e anche Valerio lo era. Possiamo accettare la morte di Valerio, farcene una ragione, purché sia l’ultima di questa strage di giovani. Solo così nessuno dovrà mai dire che questi ragazzi sono stati sacrificati per niente.

[…] Ora sulle nostre spalle è caduto il peso della sua morte. Noi non abbiamo la rassegnazione religiosa ad aiutarci contro il dolore. Non sappiamo perdonare, come il figlio di Bachelet, anche se l’abbiamo ammirato per il suo coraggio. A noi militanti comunisti, resta solo la forza della ragione. Due giorni dopo il delitto, io sono tornato al lavoro. Mia moglie, la vede: non ha ancora pianto. Ma sapesse quello che abbiamo dentro…Viviamo nel ricordo di questo unico figlio. Il resto è stato cancellato. Interminabile è la notte, lunga come un incubo, senza sonno, piena di dolore1”.

Mi dispiace Carla, mi dispiace se non riesco a scrivere parole adeguate a ricordarti, proprio oggi che è passata una settimana, mentre scrivo, dalla tua morte.

Carla, le tue parole restano le più chiare per raccontare chi eri.

Vorrei dire un’ultima cosa. Nel rapporto su mio figlio, che per anni è andato in Vespa con la sua macchina fotografica a tracolla, c’è scritto che le fotografie sono tutte ‘sfocate e indistinte per un errato uso della macchina fotografica.
Strano, erano anni che andava in giro a fare fotografie. Quelle del dossier si vedevano tutte. Stavolta invece no, tutte buie.
Dev’essere che Valerio, quel giorno, è riuscito a fotografare il futuro.
Non il suo, quello di tutti
2”.

Ciao Carla, mi mancherai tantissimo.

Marco Capoccetti Boccia

Pubblicato sul numero 19 della rivista Laspro (www.laspro.it)

1Sergio Baraldi, Il padre di Valerio: “Non so perdonare, ma fermiamo la strage”, Paese Sera, 09/04/1980.

2Carla Verbano, Alessandro Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli, Milano, 2010.

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